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MARIA SABINA LEMBO- Avvocato penalista e tributarista, Giornalista pubblicista iscritta all'Albo, Autore di pubblicazioni giuridiche, Relatore e chairman in convegni giuridici,Fondatore e Responsabile giuridico di www.giuristiediritto.it

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sabato 17 dicembre 2011

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE



(Presidente Luccioli - Relatore Dogliotti)

Svolgimento del processo

D. G. L. presentava ricorso al Tribunale per i minorenni di Ancona, chiedendo la sospensione della potestà del padre naturale della minore A., nata nel omissis, M. M.. Questi chiedeva rigettarsi la domanda della D. G., instando, a sua volta, per la sospensione della potestà della D. G..

Veniva svolta attività istruttoria (relazione dei servizi; consulenza tecnica d'ufficio).

All'esito, il Tribunale minorile, con decreto 20/12/2007, disponeva l'affidamento condiviso della minore ai genitori, con collocamento della bambina presso il padre.

Proponeva reclamo la D. G., ribadendo la richiesta di sospensione della potestà paterna.

Il M. chiedeva il rigetto del reclamo.

La Corte d'Appello di Ancona - Sezione per i minorenni, con decreto in data 26/3/2008, fermo l'affidamento condiviso ad entrambi i genitori, disponeva la collocazione della minore presso la madre, con ampia facoltà di visita del padre; condannava quest'ultimo alla corresponsione di un assegno periodico per la minore di euro 250 mensili.

Ricorre per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. il M., con cinque motivi.

Resiste, con controricorso, la D. G., proponendo ricorso incidentale.







Motivi della decisione



Vanno riuniti i ricorsi principale ed incidentale, ai sensi dell'art. 335 c.p.c..

Questione preliminare, da esaminare d'ufficio, non avendola dedotta nessuna delle parti, riguarda la ricorribilità per cassazione, ancorché ai sensi dell'art. 111 Cost., del decreto della Corte di Appello, Sezione per i minorenni che abbia pronunciato, ai sensi dell'art. 317 bis c.c. sull'affidamento dei figli di genitori non coniugati. È ben consapevole il Collegio che la giurisprudenza consolidata di questa Corte ha risolto la questione nel senso dell'inammissibilità del ricorso, ricollegando tale materia a quella dell'esercizio della potestà e dei suoi limiti (art. 333, 330 c.c.). (Tra le altre, Cass. sez. un. n. 25008 del 2007; n. 13286 del 2004).

Ritiene tuttavia il Collegio che a diversa soluzione debba pervenirsi alla luce del recente intervento normativo di cui alla l. n. 54 del 2006.

Considerando la questione in prospettiva storica, va osservato che, anteriormente alla riforma del 1975, l'affidamento dei figli di genitori non coniugati veniva fatto rientrare nella previsione dell'art. 333 c.c.: una limitazione della potestà, una sorta di sanzione per il genitore non idoneo (anche se, fin d'allora, l'interpretazione dell'art. 333 c.c. si andava facendo più estesa, ed iniziava a considerare le situazioni oggettivamente pregiudizievoli, indipendentemente dalla colpa del genitore). Quanto ai profili economici, si richiamava l'obbligo alimentare, e la relativa procedura (art. 433 c.c. e segg.), introducendosi così una distribuzione di competenza tra tribunale minorile ed ordinario, mantenutasi fino a tempi assai recenti.

La riforma del diritto di famiglia del 1975 introdusse elementi di novità anche in questo settore. L'art. 317 bis c.c., che non trovava alcuna corrispondenza nella normativa anteriore, disciplina, tra l'altro, l'affidamento dei figli di genitori non coniugati, a seguito di rottura della convivenza tra essi e i figli, ovvero quando convivenza non vi sia mai stata. La disposizione attribuisce notevole discrezionalità al giudice (il Tribunale per i minorenni) che, nell'interesse del minore, può escludere dall'esercizio della potestà entrambi i genitori, nominando un tutore, previsione assai lontana da quella dell'art. 155 c.c., che regola l'affidamento dei figli di genitori (uniti in matrimonio e) separati.

È indubbio che l'introduzione dell'art. 317 bis c.c. comportava un'autonomia del procedimento in esame, rispetto a quello di limitazione e decadenza dalla potestà (e tuttavia il riferimento all'esercizio della potestà, contenuto nella disposizione, l'ampia discrezionalità attribuita al giudice, la competenza del Tribunale per i minorenni e, di conseguenza, la procedura in camera di consiglio, di cui agli artt. 737 c.p.c. e segg. contribuirono a mantenerlo nell'alveo dei predetti procedimenti di cui agli artt. 333 e 330, 336 c.c.).

Al contrario, la procedura davanti al Tribunale ordinario conquistava una sua autonomia rispetto a quelle relative ai crediti alimentari. Del resto, la riforma del 1975 precisa, con chiarezza, al novellato art. 261 c.c. che il genitore che ha riconosciuto il proprio figlio naturale assume nei suoi confronti tutti i diritti e doveri che ha nei confronti dei figli nati nel matrimonio. Dunque di mantenimento si doveva parlare, e non di alimenti, e la relativa azione veniva proposta nell'ambito di un ordinario procedimento di cognizione, promosso con atto di citazione, avvicinando così tale procedura a quella di separazione e divorzio, per quanto attinente ai provvedimenti relativi ai figli. Un “avvicinamento” ulteriore si verificava in virtù di una nota sentenza della Corte costituzionale (Corte Cost. 13/5/1988, n. 166) che, pur ritenendo infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 155 c.c. nella parte in cui non ammetterebbe la possibilità di assegnazione della casa familiare di proprietà di un genitore all'altro, affidatario del figlio naturale, perveniva al medesimo risultato in via interpretativa.

La recente L. n. 54 del 2006, esprimendo un'evidente scelta di assimilazione della posizione dei figli naturali a quelli nati nel matrimonio, quanto al loro affidamento, precisa che “le disposizioni della presente legge si applicano anche (...) ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”. Dunque sono applicabili, anche in questo settore, le regole introdotte dalla predetta legge per la separazione e il divorzio: potestà esercitata da entrambi i genitori, decisioni di maggior interesse di comune accordo (con intervento diretto del giudice, in caso di contrasto), quelle più minute assunte anche separatamente, privilegio dell'affidamento condiviso rispetto a quello ad uno dei genitori, che comunque può essere disposto, quando il primo appaia contrario all'interesse del minore; assegno per il figlio, in subordine, essendo preminente il principio del mantenimento diretto da parte di ciascun genitore, audizione obbligatoria del minore ultradodicenne, possibilità di revisione delle condizioni di affidamento, ecc.

Ma le innovazioni introdotte dalla l. n. 54 comportano, oltre agli effetti sostanziali sopraindicati, pure rilevanti problematiche processuali, in quanto forniscono una definitiva autonomia al procedimento di cui all'art. 317 bis c.c., allontanandolo dall'alveo della procedura ex art. 330, 333, 336 c.c. e avvicinandolo, e per certi versi assimilandolo, a quello di separazione e divorzio, con figli minori.

Né si potrebbe obiettare che si mantiene comunque la competenza funzionale del Tribunale per i minorenni e il rito della camera di consiglio: l'ordinamento prevede, ormai con una certa frequenza, la scelta del rito camerale, in relazione a controversie oggettivamente contenziose, per ragioni di celerità e snellezza, primo tra tutti il giudizio di appello nei procedimenti di separazione e divorzio.

Delle innovazioni della l. n. 54 già ha tenuto conto questa Corte, con orientamento ormai consolidato, opportunamente superando la distribuzione di competenze tra tribunale minorile ed ordinario (affidamento dei figli di genitori non uniti in matrimonio, al primo, pronuncia sul mantenimento e sull'assegnazione della casa familiare, al secondo) e attribuendo ogni competenza al tribunale minorile (Cass. S.U. n. 8362 del 2007).

Da quanto si è finora osservato consegue dunque la piena ricorribilità per cassazione, nel regime dettato dalla legge n. 54 del 2006, di provvedimenti emessi, ai sensi dell'art. 317 bis c.c., in sede di reclamo, relativi all'affidamento dei figli e alle relative statuizioni economiche, ivi compresa l'assegnazione della casa familiare.

Vanno esaminate altre due questioni preliminari, prospettate dalla controricorrente e ricorrente incidentale.

Lamenta essa di aver ricevuto copia notificata del ricorso incompleta della pag. 11 e del mancato deposito del decreto di concessione del gratuito patrocinio. Le eccezioni sono infondate. Quanto alla prima, va osservato che la relata di notifica indica chiaramente la “copia” del ricorso, conforme all'originale, e, secondo orientamento consolidato presso questa Corte {tra le altre, Cass. n. 23429 del 2007), la contestazione della veridicità della relata dovrebbe essere effettuata con querela di falso. Relativamente alla seconda, va rilevato che la controricorrente non indica uno specifico interesse al riguardo.

Vanno ora esaminati i motivi del ricorso principale e di quello incidentale.

Con il primo motivo, il ricorrente principale lamenta violazione dell'art. 132 c.p.c. (art. 360, n. 4 c.p.c.) per omessa sottoscrizione della “sentenza” da parte del giudice estensore, nonché per mancanza della dicitura “Repubblica italiana. In nome del popolo italiano” nell'intestazione.

Il motivo è infondato. Il ricorrente si riferisce a sentenza, laddove, nella specie, si tratta di decreto, per il quale è sufficiente la sottoscrizione del Presidente (al riguardo, Cass. n. 2381 del 2000) e non occorre la predetta intestazione.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione dell'art. 112 c.p.c. (art. 360, n. 4 c.p.c). Egli sostiene che il giudice a quo avrebbe pronunciato ultra petitum, disponendo che il padre provveda al mantenimento della minore nella misura di euro 250 mensili, nonostante nessuna richiesta fosse stata formulata, al riguardo, dalla controparte.

Il motivo è parimenti infondato. Il principio espresso dall'art. 112 c.p.c., per cui il giudice deve pronunciarsi “non oltre” la domanda, non deve essere inteso in senso letterale e formale (soprattutto in una materia, come quella familiare e minorile, dove l'interesse del fanciullo - che spesso non è parte del procedimento - è nettamente preminente); il giudice dunque, accogliendo una domanda, può ben pronunciare sulle conseguenze che derivano da tale accoglimento (tra le altre, Cass. n. 6891 del 2005).

La D. G. aveva chiesto, già in primo grado, l'allontanamento del M. dalla casa familiare, e ciò comportava implicitamente che, se la domanda fosse stata accolta, il giudice si pronunciasse sul mantenimento della minore. Ciò ha fatto il giudice d'appello, riformando il decreto del Tribunale minorile, e disponendo il collocamento della minore presso la madre.

Con il terzo e quarto motivo, che possono essere trattati congiuntamente, perché strettamente collegati, il ricorrente lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione nel disporre il collocamento della minore presso la madre.

I motivi sono inammissibili. Le “sintesi” formulate, ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., sono del tutto generiche e mancano le chiare indicazioni del fatto controverso (v., al riguardo, Cass. n. 8897/2008). In ogni caso il ricorrente introduce profili di fatto inerenti la scelta del genitore più idoneo, insuscettibili di valutazione in questa sede.

Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 155 quater c.c. e 4, co. 2 l. n. 54 del 2006.

Sostiene che erroneamente il giudice d'appello ha revocato l'assegnazione a suo favore della casa familiare.

Il motivo è sostanzialmente assorbito, in quanto la casa era stata assegnata all'odierno ricorrente, quale collocatario della figlia minore: la revoca dell'assegnazione è diretta conseguenza del collocamento della minore presso la madre.

Va, conclusivamente, rigettato il ricorso principale.

Il ricorso incidentale è affidato ad un unico motivo: si lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in ordine al regime di visita ritenuto troppo ampio per il padre. Il motivo è inammissibile: manca il necessario momento di “sintesi” (omologo al quesito di diritto) che circoscriva i limiti della censura, richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte (v., Cass. n. 8897/2008), in applicazione dell'art. 366 bis c.p.c..

Il tenore della decisione richiede la compensazione delle spese di giudizio tra le parti, in ragione di metà, con condanna del ricorrente principale per l'altra metà.







P.Q.M.



La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale; dichiara compensate per metà le spese di giudizio tra le parti e condanna il ricorrente al pagamento per l'altra metà, liquidandole in euro 1.500, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

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