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MARIA SABINA LEMBO- Avvocato penalista e tributarista, Giornalista pubblicista iscritta all'Albo, Autore di pubblicazioni giuridiche, Relatore e chairman in convegni giuridici,Fondatore e Responsabile giuridico di www.giuristiediritto.it

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venerdì 1 luglio 2011

PARERE PENALE. PECULATO E MARCHE DA BOLLO

Avv. MARIA SABINA LEMBO- FORO DI POTENZA


PARERE
PECULATO E MARCHE DA BOLLO

Nel 1999, Tizio - in qualità di agente di polizia municipale del Comune di Viterbo, addetto all'accettazione delle "dichiarazioni d'inizio attività" e delle "richieste di autorizzazioni edilizie per l'esecuzione di piccole opere"-, avendo per ragioni del suo ufficio la disponibilità delle pratiche già definite e conservate presso l'archivio del settore d'appartenenza, sulle quali erano state applicate marche da bollo da lire 20.000 cadauna, diritti di segreteria da lire 50.000 cadauna e marche per il rimborso spese da lire 650 cadauna, se ne appropria, asportandole e privandole dalle predette pratiche, riutilizzandole e apponendole sui moduli delle istanze presentate dai richiedenti presso gli sportelli dei suddetti uffici, per un ammontare complessivo di lire 23.646.000.
Il candidato, assunte le vesti del difensore di Tizio, rediga parere motivato.
        

       BREVI CENNI TEORICI
La norma incriminatrice ex art 314 c.p. è stata profondamente modificata, rispetto al testo originario, dalla legge n. 86/1990 che ha:
a) introdotto la figura del c.d. peculato duso;
b) ricondotto al delitto previsto dal primo comma, della norma de qua, quello di malversazione in danno di privati, prima punito dallart 315 c.p.;
c) soppresso la figura del c.d. peculato per distrazione.
Linteresse tutelato dalla norma viene generalmente individuato non solo nel patrimonio della P.A. e dei terzi (anche privati) rispetto ai comportamenti disonesti di funzionari che agiscono al fine di procurare ingiusti vantaggi a sé o ad altri, ma anche nella legalità, probità, efficienza, imparzialità di questultima ex art 97 Costituzione.
Si tratta pertanto di un  delitto plurioffensivo.
Il peculato è un reato proprio in quanto può essere commesso soltanto da chi abbia la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di  pubblico servizio (es. dipendente dellEnel, ufficiale giudiziario, notaio, postino, guardia giurata ecc.).
La nozione di pubblico servizio deve, peraltro, essere intesa in senso oggettivo, nel senso che va valutata non in relazione alla natura pubblica o privata dellente, ma con riguardo al tipo di attività concretamente svolta.
Tale qualifica deve sussistere nel momento in cui il soggetto entra nel possesso o nella disponibilità del bene, mentre è irrilevante che permanga al momento in cui egli se ne appropri effettivamente.    
Presupposto del reato è il possesso ovvero la disponibilità di denaro o di cosa mobile altrui per ragione di ufficio o di servizio.
Commette, quindi, il delitto di peculato, il pubblico ufficiale o lincaricato di un pubblico servizio che si appropria del danaro o di altra cosa mobile altrui, di cui abbia il possesso o la disponibilità  per motivi attinenti al suo ufficio o servizio.
Mentre la giurisprudenza ha elaborato un'interpretazione estensiva della nozione del termine "ragione del suo ufficio o servizio", in dottrina non si riscontra uniformità di pensiero.
La ragione di ufficio non va intesa necessariamente nel senso di competenza specifica, strettamente funzionale, legale, in stretta aderenza tra lufficio ed il servizio, potendo consistere anche in un occasionale possesso  connesso con lufficio ricoperto dal soggetto, o in un affidamento meramente volontario e facoltativo, anche per mera prassi, purchè tale affidamento non contrasti con un espresso divieto di legge o non derivi da fatto illecito.        
Quanto alla disponibilità della cosa, si ritiene sufficiente una relazione di semplice occasionalità tra il possesso di denaro e l'esercizio di mansioni connesse all'appartenenza del soggetto attivo del reato all'ufficio.
Per quanto riguarda il possesso o comunque la disponibilità del denaro o della cosa mobile, la relazione che deve esistere tra il soggetto attivo e la cosa oggetto del reato non deve essere ricondotta necessariamente alla nozione civilistica di possesso, essendo sufficiente la detenzione materiale o la sola disponibilità giuridica del bene.
Oggetto materiale del delitto sono il denaro o la cosa mobile altrui anche se non necessariamente appartenenti alla P.A. poiché, essendo scomparsa la distinzione tra peculato e malversazione a danno di privati, i beni oggetto di appropriazione, possono anche essere di soggetti privati. In tale nozione devono farsi rientrare anche i titolo di credito e le azioni di società.
Perché possa essere oggetto di peculato, peraltro, la cosa deve avere un valore economico intrinseco, ovvero deve poterlo acquistare o riacquistare in conseguenza della condotta dellagente o di altri, giacchè ciò che è privo di tale requisito non può acquisire rilevanza per il diritto.
Lappropriazione si verifica quando il soggetto compie, in relazione alla cosa oggetto del reato, un atto che sia manifestazione della volontà di considerarla come propria, e cioè si comporti nei confronti della stessa, non più come il soggetto che ne ha il possesso (o la disponibilità) ma come proprietario. In tal senso appropriarsi significa comportarsi nei confronti della cosa uti dominus, esercitando su di essa atti di dominio come, ad esempio, alienarla, distruggerla, ritenerla per sé senza restituirla, usarla in modo che si consumi.      
La condotta, dunque, è costituita da due momenti, quello "espropriativo" consistente nell'esclusione del proprietario dal rapporto con la cosa e quello "impropriativo", allorquando si prende a comportarsi uti dominus nei confronti della cosa; entrambi i momenti devono coesistere nella condotta di appropriazione.
Il dolo del reato di peculato è generico, consistendo nella coscienza e volontà dellappropriazione.
Non è richiesto il perseguimento del fine di profitto.
L'intenzione di restituire, anche se seguita dall'effettiva restituzione, è irrilevante ai fini della configurabilità del reato.
La competenza è del Tribunale in composizione collegiale e si procede di ufficio.

MOTIVAZIONE
Nel caso in esame, occorre verificare se la condotta dellagente Tizio configuri o meno il delitto di peculato o piuttosto il delitto di truffa e se vi è un concorso formale tra essi.
In primo luogo, si rileva che sussiste il presupposto applicativo del peculato: lo status di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.
Per quanto riguarda, poi, l’oggetto materiale, la giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente affermato, proprio in relazione ad analoghe fattispecie, che il peculato può avere ad oggetto cose che, pur non avendo valore intrinseco, possono acquistare o riacquistare rilevanza economica per la utilizzazione che ne faccia l’agente (cfr. Cass. Pen. Sez. VI, 25 ottobre 1989,  Cass. Pen. 31 ottobre 1986).
Secondo l’opzione ermeneutica della sentenza della Cassazione Penale n. 30154/2007 le marche sottratte da precedenti pratiche, infatti, hanno un preciso e concreto valore per la P.A., costituito dalla loro efficacia documentativa rispetto alla regolarità fiscale delle pratiche, che, private di esse, producono un evidente disordine amministrativo-contabile.
Oggetto della condotta appropriativa sono non solo le marche “riciclate”, ma anche e soprattutto le somme versate a Tizio -dagli utenti-, le quali ne costituiscono il controvalore, e che, a tale titolo, divengono di pertinenza della P.A. in quanto gli utenti, tratti in errore da Tizio, non hanno assolto il loro dovere tributario.
Tale sentenza, pur ponendosi per molti aspetti in linea con i più recenti orientamenti giurisprudenziali in materia di peculato, appare comunque significativa, oltre che per le interessanti argomentazioni giuridiche sviluppate, anche per la forte condanna espressa dai Supremi Giudici nei confronti della pratica del “riciclaggio” delle marche da bollo da parte dei pubblici dipendenti.
Nel caso in esame è applicabile, al delitto di peculato, l’attenuante di cui all’art 62 n.4 c.p. ovvero l’avere cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di speciale tenuità.
Altri rilievi attengono all'eventuale  concorso formale fra i reati di peculato e quello di truffa.
Il concorso formale, o ideale, si ha quando il soggetto agente ha posto in essere più reati con una sola azione od omissione. Esso può essere omogeneo od eterogeneo a seconda che si violi la stessa norma più volte o più norme diverse.
Per il concorso formale, con la riforma del D.L. n°. 99 del 1974, si è passati dal trattamento sanzionatorio del cumulo materiale a quello del cumulo giuridico consistente, secondo l'art. 81 C.P, 1° comma nell'aumento della pena sino al triplo per la violazione più grave.
Nel caso di specie si configura, pertanto, un concorso formale eterogeneo fra il reato di peculato e quello di truffa a danno dei privati per il dipendente del Comune che stacca il "bollato" dalle pratiche conservate in archivio e lo appone sulle istanze presentate allo sportello.

SOLUZIONE
Tizio dovrà rispondere del delitto di peculato in concorso formale con il delitto di truffa in danno dei privati. Si applicherà anche  lattenuante dellart 62 n.4 c.p.


GIURISPRUDENZA RISOLUTIVA
Cassazione Penale, sez. VI,  n. 30154 /2007

        FATTO
Con sentenza in data 20 maggio 2004, il Tribunale di Milano, riconosciute le attenuanti generiche, condannava B. G. alla pena di anni due e mesi sei di reclusione e C.G. alla pena di anni due e mesi tre di reclusione, oltre alle pene accessorie e al risarcimento dei danni in favore della parte civile Comune di Milano, in quanto responsabili:
il B., del reato di cui agli artt. 81 cpv. e 314 c.p., perchè, nella sua qualità di agente di polizia municipale del Comune di Milano, applicato presso il Settore Concessioni ed Autorizzazioni Edilizia, addetto all'accettazione delle "dichiarazioni d'inizio attività" e delle "richieste di autorizzazioni edilizie per l'esecuzione di piccole opere", e quindi pubblico ufficiale, avendo per ragioni del suo ufficio la disponibilità delle pratiche già definite e conservate presso l'archivio del settore d'appartenenza, sulle quali erano state applicate marche da bollo da L. 20.000 cadauna, diritti di segreteria da L. 50.000 cadauna e marche per il rimborso spese da L. 650 cadauna, se ne appropriava, asportandole e privandole dalle predette pratiche, riutilizzandole e apponendole sui moduli delle istanze presentate dai richiedenti presso gli sportelli dei suddetti uffici, per un ammontare complessivo di L. 23.646.000 (in (OMISSIS), accertato il 5 aprile 2001);
il C., del reato di cui agli artt. 81 cpv. e 314 c.p., perchè, nella sua qualità di agente di polizia municipale del Comune di Milano, applicato presso il Settore Concessioni ed Autorizzazioni Edilizia, addetto all'accettazione delle "dichiarazioni d'inizio attività" e delle "richieste di autorizzazioni edilizie per l'esecuzione di piccole opere", e quindi pubblico ufficiale, avendo per ragioni del suo ufficio la disponibilità delle pratiche già definite e conservate presso l'archivio del settore d'appartenenza, sulle quali erano state applicate marche da bollo da L. 20.000 cadauna, diritti di segreteria da L. 50.000 cadauna e marche per il rimborso spese da L. 650 cadauna, se ne appropriava, asportandole e privandole dalle predette pratiche, riutilizzandole e apponendole sui moduli delle istanze presentate dai richiedenti presso gli sportelli dei suddetti uffici, per un ammontare complessivo di L. 2.443.900 (in (OMISSIS), accertato il 5 aprile 2001).
Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, appellata da entrambi gli imputati, riconosciuta quanto al C. l'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4, riduceva la pena allo stesso inflitta in anni due di reclusione, concedendo inoltre allo stesso entrambi i benefici di legge e confermando nel resto l'appellata sentenza.
Osservava la Corte milanese che sulla base di risultanze documentali e testimoniali doveva ritenersi provata la condotta ascritta agli imputati, che erano stati visti più volte fornire agli utenti marche da bollo che avrebbero dovuto essere invece acquistate in rivendite esterne ovvero in un apposito ufficio posto al piano superiore, e che avevano sicuramente riciclato marche già utilizzate, asportate da altre pratiche, come riscontrato in alcuni casi dai colleghi di ufficio e come comunque risultava dalle rispettive sigle di annullo da loro apposte sulle marche.
Poteva essere concessa l'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4 al solo C., in relazione al modesto importo complessivo delle marche riutilizzate.
Ricorrono per cassazione entrambi gli imputati.
Il B. deduce personalmente:
1. Difetto di motivazione circa la prova dell'elemento oggettivo del peculato.
La Corte territoriale non ha risposto ai rilievi contenuti nell'atto di appello.
Si era osservato che nessuno dei colleghi di ufficio dell'imputato aveva ricondotto ad esso la condotta contestata.
L'unico dato che emergeva dalle risultanze dibattimentali è che il B. aveva talvolta fornito marche da bollo nuove a coloro che presentavano le pratiche allo sportello.
Nulla conduceva a individuare nel B. il responsabile del riutilizzo di marche prelevate da precedenti pratiche.
2. Erronea qualificazione giuridica del fatto.
Le marche già annullate, di cui si afferma il riutilizzo, non avevano alcun valore economico, rappresentando solo il già avvenuto pagamento della imposta di bollo da altri fatto.
Si potrebbe ipotizzare al più il reato di cui all'art. 640 c.p. in danno del privato, posto che questi acquista un bollo già utilizzato credendolo nuovo, senza di fatto assolvere al dovere tributario.
In ogni caso, la sentenza impugnata non ha affatto motivato circa la subordinata richiesta di riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4.
Il difensore del C., avv. Francesco Mobilio, deduce la inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e la mancanza o illogicità della motivazione, rilevando:
La Corte territoriale non ha risposto ai rilievi contenuti nell'atto di appello con i quali si rimarcava che nulla indicava chi fra i due imputati, e in che misura, avesse riutilizzato le marche prelevate da precedenti pratiche.
Una sola volta il C., fu sorpreso mentre utilizzava una marca riciclata.
Un numero indeterminato di persone addette all'ufficio, compresi i lavoratori interinali, avevano accesso alle pratiche di ufficio.
In ogni caso la marca di cui il C. si sarebbe appropriato non aveva alcun valore, proprio perchè era stata annullata.
Era al più ipotizzabile il reato di truffa in danno del privato.
DIRITTO
1. Le doglianze in punto di affermazione della responsabilità penale degli imputati appaiono infondate.
La prova della commissione dei fatti contestati è stata esattamente e inequivocabilmente desunta dal fatto che le pratiche su cui erano state apposte le marche "riciclate" erano accompagnate dalla sigla dei predetti imputati, che sul punto non hanno svolto alcuna contraria deduzione. inoltre, a completamento di tale evidenza probatoria, di per sè risolutiva, è stato accertato attraverso varie testimonianze che i due imputati, in contrasto con le regole organizzative dell'ufficio, fornivano solitamente essi stessi agli utenti le marche da apporre sulle pratiche, che invece avrebbero dovuto essere acquistate nell'apposito ufficio posto al piano superiore o in rivendite esterne; e che il C. aveva in alcune occasioni sicuramente utilizzato marche palesemente usate, mentre il B. aveva una volta applicato una marca servendosi della colla, anzichè del tampone ad acqua.
Sussiste in jure il delitto contestato in relazione all'appropriazione delle marche prelevate da altre pratiche. in primo luogo, la giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente affermato, proprio in relazione ad analoghe fattispecie, che il peculato può avere ad oggetto cose che, pur non avendo valore intrinseco, possono acquistare o riacquistare rilevanza economica per la utilizzazione che ne faccia l'agente (v. per tutte Sez. 6, 25 ottobre 1989, Mocini; Id., 31 ottobre 1986, Vacca).
Ma soprattutto, va osservato che le marche sottratte da precedenti pratiche avevano un preciso e concreto valore per la pubblica amministrazione, costituito dalla loro efficacia documentativa della regolarità fiscale delle pratiche, che, private di esse, producevano un evidente disordine amministrativo-contabile.
Inoltre, l'appropriazione contestata non riguarda soltanto le marche, ma anche e soprattutto le somme versate agli imputati dagli utenti, le quali ne costituivano il controvalore, e che, a tale titolo, divenivano immediatamente di pertinenza della pubblica amministrazione.
E' vero che gli utenti, tratti in errore in tal modo dagli imputati, non assolvevano il loro dovere tributario, ma questa notazione non esclude affatto la sussistenza del peculato, ma solo rendeva prospettabile, in concorso formale con esso, l'ulteriore reato di truffa in danno dei privati, che però non è stato contestato.
2. Va invece accolto la doglianza del B. relativa al mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4, che è stata negata sulla base della considerazione dell'importo complessivo delle somme percepite in relazione a ciascun fatto appropriativo.
Al riguardo va affermato, che trattandosi di più fatti in continuazione, la sussistenza dei presupposti dell'attenuante in questione va valutata con riferimento al danno patrimoniale cagionato per ogni singolo fatto-reato (v. per tutte sez. 3, 21 ottobre 1993, Lamanna).
La sentenza impugnata va pertanto annullata limitatamente a tale punto, riguardante esclusivamente l'imputato B., con conseguente rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano.
3. Al rigetto del ricorso del C. consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
4. Gli imputati vanno condannati in solido alla rifusione delle spese del presente grado in favore della parte civile Comune di Milano, che si liquidano, in relazione alla natura e valore della causa, in Euro 1.906,00, di cui Euro 1.800,00 per onorari, oltre IVA e CPA come per legge.
E' il caso di precisare che detta statuizione di condanna investe anche il B., dovendosi ribadire che il parziale accoglimento del ricorso dell'imputato non elimina l'affermazione di responsabilità, sicchè, se impedisce la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, non è di ostacolo alla condanna del medesimo al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di impugnazione (v. Sez. 3, 19 ottobre 1993, Micheletti;
Sez. 4, 24 ottobre 1990, Galbusera).
P.Q.M.
Annulla nei confronti di B.G. la sentenza impugnata limitatamente al diniego dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4 e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Milano; rigetta il ricorso nel resto.
Rigetta il ricorso di C.G. e lo condanna al pagamento delle spese processuali.
Condanna inoltre i ricorrenti, in solido, alla rifusione delle spese del presente grado di giudizio, che liquida nella complessiva somma di Euro 1.906,00, di cui Euro 1.800,00 per onorari, oltre IVA e CPA, in favore della parte civile Comune di Milano.

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