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MARIA SABINA LEMBO- Avvocato penalista e tributarista, Giornalista pubblicista iscritta all'Albo, Autore di pubblicazioni giuridiche, Relatore e chairman in convegni giuridici,Fondatore e Responsabile giuridico di www.giuristiediritto.it

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sabato 17 dicembre 2011

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE



(Presidente Luccioli - Relatore Dogliotti)

Svolgimento del processo

D. G. L. presentava ricorso al Tribunale per i minorenni di Ancona, chiedendo la sospensione della potestà del padre naturale della minore A., nata nel omissis, M. M.. Questi chiedeva rigettarsi la domanda della D. G., instando, a sua volta, per la sospensione della potestà della D. G..

Veniva svolta attività istruttoria (relazione dei servizi; consulenza tecnica d'ufficio).

All'esito, il Tribunale minorile, con decreto 20/12/2007, disponeva l'affidamento condiviso della minore ai genitori, con collocamento della bambina presso il padre.

Proponeva reclamo la D. G., ribadendo la richiesta di sospensione della potestà paterna.

Il M. chiedeva il rigetto del reclamo.

La Corte d'Appello di Ancona - Sezione per i minorenni, con decreto in data 26/3/2008, fermo l'affidamento condiviso ad entrambi i genitori, disponeva la collocazione della minore presso la madre, con ampia facoltà di visita del padre; condannava quest'ultimo alla corresponsione di un assegno periodico per la minore di euro 250 mensili.

Ricorre per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. il M., con cinque motivi.

Resiste, con controricorso, la D. G., proponendo ricorso incidentale.







Motivi della decisione



Vanno riuniti i ricorsi principale ed incidentale, ai sensi dell'art. 335 c.p.c..

Questione preliminare, da esaminare d'ufficio, non avendola dedotta nessuna delle parti, riguarda la ricorribilità per cassazione, ancorché ai sensi dell'art. 111 Cost., del decreto della Corte di Appello, Sezione per i minorenni che abbia pronunciato, ai sensi dell'art. 317 bis c.c. sull'affidamento dei figli di genitori non coniugati. È ben consapevole il Collegio che la giurisprudenza consolidata di questa Corte ha risolto la questione nel senso dell'inammissibilità del ricorso, ricollegando tale materia a quella dell'esercizio della potestà e dei suoi limiti (art. 333, 330 c.c.). (Tra le altre, Cass. sez. un. n. 25008 del 2007; n. 13286 del 2004).

Ritiene tuttavia il Collegio che a diversa soluzione debba pervenirsi alla luce del recente intervento normativo di cui alla l. n. 54 del 2006.

Considerando la questione in prospettiva storica, va osservato che, anteriormente alla riforma del 1975, l'affidamento dei figli di genitori non coniugati veniva fatto rientrare nella previsione dell'art. 333 c.c.: una limitazione della potestà, una sorta di sanzione per il genitore non idoneo (anche se, fin d'allora, l'interpretazione dell'art. 333 c.c. si andava facendo più estesa, ed iniziava a considerare le situazioni oggettivamente pregiudizievoli, indipendentemente dalla colpa del genitore). Quanto ai profili economici, si richiamava l'obbligo alimentare, e la relativa procedura (art. 433 c.c. e segg.), introducendosi così una distribuzione di competenza tra tribunale minorile ed ordinario, mantenutasi fino a tempi assai recenti.

La riforma del diritto di famiglia del 1975 introdusse elementi di novità anche in questo settore. L'art. 317 bis c.c., che non trovava alcuna corrispondenza nella normativa anteriore, disciplina, tra l'altro, l'affidamento dei figli di genitori non coniugati, a seguito di rottura della convivenza tra essi e i figli, ovvero quando convivenza non vi sia mai stata. La disposizione attribuisce notevole discrezionalità al giudice (il Tribunale per i minorenni) che, nell'interesse del minore, può escludere dall'esercizio della potestà entrambi i genitori, nominando un tutore, previsione assai lontana da quella dell'art. 155 c.c., che regola l'affidamento dei figli di genitori (uniti in matrimonio e) separati.

È indubbio che l'introduzione dell'art. 317 bis c.c. comportava un'autonomia del procedimento in esame, rispetto a quello di limitazione e decadenza dalla potestà (e tuttavia il riferimento all'esercizio della potestà, contenuto nella disposizione, l'ampia discrezionalità attribuita al giudice, la competenza del Tribunale per i minorenni e, di conseguenza, la procedura in camera di consiglio, di cui agli artt. 737 c.p.c. e segg. contribuirono a mantenerlo nell'alveo dei predetti procedimenti di cui agli artt. 333 e 330, 336 c.c.).

Al contrario, la procedura davanti al Tribunale ordinario conquistava una sua autonomia rispetto a quelle relative ai crediti alimentari. Del resto, la riforma del 1975 precisa, con chiarezza, al novellato art. 261 c.c. che il genitore che ha riconosciuto il proprio figlio naturale assume nei suoi confronti tutti i diritti e doveri che ha nei confronti dei figli nati nel matrimonio. Dunque di mantenimento si doveva parlare, e non di alimenti, e la relativa azione veniva proposta nell'ambito di un ordinario procedimento di cognizione, promosso con atto di citazione, avvicinando così tale procedura a quella di separazione e divorzio, per quanto attinente ai provvedimenti relativi ai figli. Un “avvicinamento” ulteriore si verificava in virtù di una nota sentenza della Corte costituzionale (Corte Cost. 13/5/1988, n. 166) che, pur ritenendo infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 155 c.c. nella parte in cui non ammetterebbe la possibilità di assegnazione della casa familiare di proprietà di un genitore all'altro, affidatario del figlio naturale, perveniva al medesimo risultato in via interpretativa.

La recente L. n. 54 del 2006, esprimendo un'evidente scelta di assimilazione della posizione dei figli naturali a quelli nati nel matrimonio, quanto al loro affidamento, precisa che “le disposizioni della presente legge si applicano anche (...) ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”. Dunque sono applicabili, anche in questo settore, le regole introdotte dalla predetta legge per la separazione e il divorzio: potestà esercitata da entrambi i genitori, decisioni di maggior interesse di comune accordo (con intervento diretto del giudice, in caso di contrasto), quelle più minute assunte anche separatamente, privilegio dell'affidamento condiviso rispetto a quello ad uno dei genitori, che comunque può essere disposto, quando il primo appaia contrario all'interesse del minore; assegno per il figlio, in subordine, essendo preminente il principio del mantenimento diretto da parte di ciascun genitore, audizione obbligatoria del minore ultradodicenne, possibilità di revisione delle condizioni di affidamento, ecc.

Ma le innovazioni introdotte dalla l. n. 54 comportano, oltre agli effetti sostanziali sopraindicati, pure rilevanti problematiche processuali, in quanto forniscono una definitiva autonomia al procedimento di cui all'art. 317 bis c.c., allontanandolo dall'alveo della procedura ex art. 330, 333, 336 c.c. e avvicinandolo, e per certi versi assimilandolo, a quello di separazione e divorzio, con figli minori.

Né si potrebbe obiettare che si mantiene comunque la competenza funzionale del Tribunale per i minorenni e il rito della camera di consiglio: l'ordinamento prevede, ormai con una certa frequenza, la scelta del rito camerale, in relazione a controversie oggettivamente contenziose, per ragioni di celerità e snellezza, primo tra tutti il giudizio di appello nei procedimenti di separazione e divorzio.

Delle innovazioni della l. n. 54 già ha tenuto conto questa Corte, con orientamento ormai consolidato, opportunamente superando la distribuzione di competenze tra tribunale minorile ed ordinario (affidamento dei figli di genitori non uniti in matrimonio, al primo, pronuncia sul mantenimento e sull'assegnazione della casa familiare, al secondo) e attribuendo ogni competenza al tribunale minorile (Cass. S.U. n. 8362 del 2007).

Da quanto si è finora osservato consegue dunque la piena ricorribilità per cassazione, nel regime dettato dalla legge n. 54 del 2006, di provvedimenti emessi, ai sensi dell'art. 317 bis c.c., in sede di reclamo, relativi all'affidamento dei figli e alle relative statuizioni economiche, ivi compresa l'assegnazione della casa familiare.

Vanno esaminate altre due questioni preliminari, prospettate dalla controricorrente e ricorrente incidentale.

Lamenta essa di aver ricevuto copia notificata del ricorso incompleta della pag. 11 e del mancato deposito del decreto di concessione del gratuito patrocinio. Le eccezioni sono infondate. Quanto alla prima, va osservato che la relata di notifica indica chiaramente la “copia” del ricorso, conforme all'originale, e, secondo orientamento consolidato presso questa Corte {tra le altre, Cass. n. 23429 del 2007), la contestazione della veridicità della relata dovrebbe essere effettuata con querela di falso. Relativamente alla seconda, va rilevato che la controricorrente non indica uno specifico interesse al riguardo.

Vanno ora esaminati i motivi del ricorso principale e di quello incidentale.

Con il primo motivo, il ricorrente principale lamenta violazione dell'art. 132 c.p.c. (art. 360, n. 4 c.p.c.) per omessa sottoscrizione della “sentenza” da parte del giudice estensore, nonché per mancanza della dicitura “Repubblica italiana. In nome del popolo italiano” nell'intestazione.

Il motivo è infondato. Il ricorrente si riferisce a sentenza, laddove, nella specie, si tratta di decreto, per il quale è sufficiente la sottoscrizione del Presidente (al riguardo, Cass. n. 2381 del 2000) e non occorre la predetta intestazione.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione dell'art. 112 c.p.c. (art. 360, n. 4 c.p.c). Egli sostiene che il giudice a quo avrebbe pronunciato ultra petitum, disponendo che il padre provveda al mantenimento della minore nella misura di euro 250 mensili, nonostante nessuna richiesta fosse stata formulata, al riguardo, dalla controparte.

Il motivo è parimenti infondato. Il principio espresso dall'art. 112 c.p.c., per cui il giudice deve pronunciarsi “non oltre” la domanda, non deve essere inteso in senso letterale e formale (soprattutto in una materia, come quella familiare e minorile, dove l'interesse del fanciullo - che spesso non è parte del procedimento - è nettamente preminente); il giudice dunque, accogliendo una domanda, può ben pronunciare sulle conseguenze che derivano da tale accoglimento (tra le altre, Cass. n. 6891 del 2005).

La D. G. aveva chiesto, già in primo grado, l'allontanamento del M. dalla casa familiare, e ciò comportava implicitamente che, se la domanda fosse stata accolta, il giudice si pronunciasse sul mantenimento della minore. Ciò ha fatto il giudice d'appello, riformando il decreto del Tribunale minorile, e disponendo il collocamento della minore presso la madre.

Con il terzo e quarto motivo, che possono essere trattati congiuntamente, perché strettamente collegati, il ricorrente lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione nel disporre il collocamento della minore presso la madre.

I motivi sono inammissibili. Le “sintesi” formulate, ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., sono del tutto generiche e mancano le chiare indicazioni del fatto controverso (v., al riguardo, Cass. n. 8897/2008). In ogni caso il ricorrente introduce profili di fatto inerenti la scelta del genitore più idoneo, insuscettibili di valutazione in questa sede.

Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 155 quater c.c. e 4, co. 2 l. n. 54 del 2006.

Sostiene che erroneamente il giudice d'appello ha revocato l'assegnazione a suo favore della casa familiare.

Il motivo è sostanzialmente assorbito, in quanto la casa era stata assegnata all'odierno ricorrente, quale collocatario della figlia minore: la revoca dell'assegnazione è diretta conseguenza del collocamento della minore presso la madre.

Va, conclusivamente, rigettato il ricorso principale.

Il ricorso incidentale è affidato ad un unico motivo: si lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in ordine al regime di visita ritenuto troppo ampio per il padre. Il motivo è inammissibile: manca il necessario momento di “sintesi” (omologo al quesito di diritto) che circoscriva i limiti della censura, richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte (v., Cass. n. 8897/2008), in applicazione dell'art. 366 bis c.p.c..

Il tenore della decisione richiede la compensazione delle spese di giudizio tra le parti, in ragione di metà, con condanna del ricorrente principale per l'altra metà.







P.Q.M.



La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale; dichiara compensate per metà le spese di giudizio tra le parti e condanna il ricorrente al pagamento per l'altra metà, liquidandole in euro 1.500, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Misure cautelari nei confronti di imputati per atti persecutori

 


Tribunale di Catanzaro
Sezione II penale
riunito in camera di consiglio nelle persone dei seguenti magistrati:
- dr. Pietro Scuteri presidente
- dr. Sergio Natale giudice
- dr. Francesco Agnino giudice rel.
per decidere sull’appello ex art. 310 c.p.p. presentato il 9.5.2009 dal Pm del Tribunale di Crotone avverso l’ordinanza emessa dal gip del Tribunale di Crotone del 2 maggio 2009 con la quale era rigettata la richiesta di applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati delle pp.oo. nei confronti di P.S., in atti generalizzato, indagato per i delitti di cui agli artt. 612, 612 bis, 629, 635 c.p.;
esaminati gli atti del procedimento, udito il difensore e
sciogliendo la riserva di cui al separato verbale di udienza, il Collegio
osserva
Fatto
Il 26 marzo 2009, B.A. ed i suoi figli P.L. e M. presentavano querela nei confronti dell’odierno appellato.
In particolare le pp.oo. riferivano di essere state minacciate di morte dal P. (ti ammazzo, ti sparo, qui sono il padrone), il quale aveva danneggiato anche numerosi oggetti, a seguito del rifiuto da parte della B. di poter utilizzare un conto corrente intestato esclusivamente alla donna stessa.
Il successivo 2 aprile, i CC della stazione di Torre Melissa assistevano ad un litigio tra il P. e suo figlio Luca, nel corso del quale l’indagato proferiva nei confronti del figlio minacce di morte: ti ammazzo, vi mando al lastrico, te ne devi andare da Torre Melissa se no ti ammazzo (v. annotazione di servizio del 2 aprile 2009).
Il 3 aprile 2009, B.A. presentava ulteriore denuncia nella quale riferiva che il P. aveva costretto lei ed i suoi figli a chiudere il ristornate da loro gestito in quanto temo che mio marito, in cerca di denaro o solo per spaventarci, possa irrompere e distruggere tutto, come già accaduto, in presenza di clientela. Tale timore è giustificato dal fatto che mio marito passa più volte al giorno a bordo della autovettura e si apposta all’esterno dei locali per verificare se questi sono chiusi. Tale situazione di ansia e paura oltre a rendere impossibile la mia sopravvivenza e quella dei miei figli sta pregiudicando la nostra situazione economica, in quanto l’attività lavorativa è ferma da diversi giorni.
Il Pm formulava richiesta di applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati delle pp.oo.
Il gip rigettava la richiesta sul rilievo che non vi è la necessaria determinazione dei luoghi che si vorrebbero interdire all’indagato; infatti, necessitano di specifica (e preventiva, ossia indicata nel testo dell’ordinanza, e non già lasciata alla futura attività di indagine di chi sia delegato ai controlli) individuazione tutti i luoghi indicati nella richiesta, ossia la abitazione delle tre persone indicate.
Il Pm interponeva atto di gravame alle cui motivazioni si rinvia.
L’appello è fondato e deve essere quindi accolto.
Va premesso che in conformità al principio giurisprudenziale secondo cui “quando il GIP, ritenuta la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, abbia respinto la richiesta dal pubblico ministero di applicazione di una misura cautelare personale per assenza di esigenze cautelari e il P.M. abbia proposto appello su quest’ultimo punto, la parziale statuizione del GIP sulla sussistenza degli indizi, non suscettibile di autonoma impugnazione da parte dell’indagato, non determina a carico di questo alcuna preclusione nel giudizio di appello né sotto il profilo del giudicato cautelare né sotto quello dell’effetto devolutivo dell’impugnazione del P.M. In tale caso il giudice di appello è legittimato a procedere alla verifica della sussistenza dei gravi indizi in quanto antecedente logico necessario alla decisione sulle esigenze cautelari e presupposto ineludibile dell’applicabilità della misura cautelare” (cfr., Cass., sez. VI, 15 maggio/29 agosto 1995, n. 1835), nell’ambito del presente procedimento incidentale, questo Collegio è chiamato a rivalutare, sotto ogni profilo, la fondatezza dell’originaria domanda cautelare.
Peraltro, condividendo la valutazioni fatte sul punto dalla parte pubblica, l’intestato Collegio osserva come la decisione del gip assuma i caratteri di un non liquet, non avendo il giudice di prima istanza preso posizione sul fondamentale ed imprescindibile ruolo di verifica demandato dalla legge (impregiudicata la valutazione dei profili indiziario e cautelare), contestando la genericità dei luoghi di non avvicinamento richiesti dal Pm.
Al contrario, i luoghi sono stati indicati con precisione, tenuto conto della elementare considerazione del rapporto di coniugio esistente tra il P. e la B. nonché di discendenza con i propri figli (oltre alla limitata estensione territoriale dei luoghi teatro della odierna vicenda cautelare), di modo che lo stesso è certamente a conoscenza delle loro abitazioni nonché del luogo di lavoro dagli stessi frequentato (per come dimostrato del resto dalla numerose “visite” fatte).
Sotto altro aspetto, il decreto legge n. 11/09, convertito con la legge_38_2009, ha introdotto nel nostro ordinamento, peraltro con notevole ritardo rispetto agli altri ordinamenti europei, una “nuova” fattispecie di reato finalizzata a far venire meno la pericolosa condotta “persecutoria” nei confronti soprattutto delle donne.
La figura ai sensi dell’art. 612 bis c.p. prevede che, “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque reiteratamente, con qualunque mezzo, minaccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico ovvero da determinare un giustificato timore per la sicurezza personale propria o di una persona vicina o comunque da pregiudicare in maniera rilevante il suo modo di vivere, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a quattro anni”.
L’illecito in esame è connotato dalla sussistenza di tre elementi costitutivi: 1) la condotta “tipica del reo; 2) la reiterazione di tale condotta; 3) l’insorgere di un particolare stato d’animo nella vittima.
La condotta illecita in esame è ascrivibile in genere nelle classiche ipotesi delittuose di minacce e molestie, peraltro già previste e sanzionate autonomamente dal Legislatore.
Sussiste la minaccia nel caso in cui il reo prospetti alla vittima un male futuro, in modo tale da turbare in modo grave la tranquillità della vittima stessa. La molestia, invece, si ravvisa nel caso in cui venga alterata in modo fastidioso o importuno l’equilibrio psichico di una persona media. Tuttavia, la pena edittale prevista per tali reati è estremamente bassa e preclude la possibilità di applicazione di misure cautelari coercitive, laddove invece, con l’introduzione della nuova fattispecie - punita con pena che nel massimo a quattro anni di reclusione - ne consente l’integrale applicazione: palese, del resto, la finalità del legislatore di potenziare, in presenza di specie, il ricorso alle misure cautelari, che si è spinto fino a prevedere l’introduzione di una nuova misura, contemplata nell’art. 282 ter, ed assistita dalle comunicazioni all’Autorità di P.S. ai sensi del nuovo art. 282 quater.
Detta condotta deve essere reiterata, seriale nel senso che i sopra descritti atti devono succedersi nel tempo. La continuazione e reiterazione in un certo lasso di tempo è elemento costitutivo. Pertanto i suddetti singoli atti, se posti in essere in un unica occasione, non integrano la fattispecie delittuosa ex art 612 bis c.p. ma quelle più “tradizionali” del tipo “minaccia” o “molestia”, magari continuate se dette condotte vengano posti in essere più di una singola volta.
Pertanto, la condotta tipica è costituita dalla reiterazione di minacce o di molestie e la peculiarità della ripetizione di dette condotte porta ad affermare che si tratti di reato abituale, mentre, nonostante la presenza del reato di cui all’art. 612 c.p. tra gli elementi costitutivi, sembra da escludersi la configurabilità degli atti persecutori quale reato complesso. Invero, prima facie parrebbe configurarsi la fattispecie del reato complesso “speciale”, dato dalla “fusione in posizione paritetica di due reati in altro e differente reato, tuttavia, ad una più attenta analisi, si può osservare che, con il termine “molestia”, il legislatore pare riferirsi alla condotta in sé considerata e non tanto, sulla falsariga della contravvenzione di cui all’art. 660 c.p., al risultato della condotta medesima. Ne consegue che, aderendo a quella parte della dottrina che esclude dall’ambito dell’art. 84 c.p. i casi di reato complesso “in senso lato” (la cui genesi deriva non già dall’unione di più reati, ma da un modello base a cui si aggiungono ulteriori elementi di per sé non costituenti reato), se ne deve desumere la non riferibilità dell’art. 612 bis a detto istituto.
Infine, tali azioni illecite devono cagionare alla vittima “un grave disagio psichico ovvero da determinare un giustificato timore per la sicurezza personale propria o di una persona vicina o comunque da pregiudicare in maniera rilevante il suo modo di vivere”.
Con l’evento del grave disagio psichico, vista la indeterminatezza della figura, si deve intendere solo ed esclusivamente a forme patologiche contraddistinte dallo stress, di tipo clinicamente definito grave e perdurante. Quanto al secondo degli eventi conseguenti alla condotta illecita, ovvero il timore per la sicurezza personale o propria, tale ipotesi ricorre ogniqualvolta la vittima, a causa dei comportamenti del reo, abbia “timore” per la propria sicurezza. Tale stato d’animo deve essere valutato in concreto, in base a tutti gli elementi che caratterizzano la vicenda, e deve essere tale se riferito ex ante con riguardo alla valutazione di una persona media. Infine, l’ultimo degli eventi sopra riportati riguarda il caso in cui, a seguito delle condotte persecutorie, il soggetto leso sia costretto, contro la sua volontà e non potendo fare altrimenti, a modificare rilevanti e gratificanti abitudini di vita.
Sulla base di quanto detto, l’illecito in esame sussiste solo quando siano integrati tutti i succitati elementi obbiettivi.
Il bene giuridico tutelato dal Legislatore si ravvisa, in primo luogo, nella libertà morale, ovvero nella libertà di autodeterminazione dell’individuo. Invero, la fattispecie mira senza dubbio a tutelare la libertà morale, come facoltà del soggetto di autodeterminarsi. Infatti, tra i vari eventi che la condotta tipica può causare vi è l’alterazione delle proprie abitudini di vita, la quale può essere vista come una particolare ipotesi di violenza privata.
Inoltre, tale condotta delittuosa potrebbe ledere, una volta realizzatasi in capo alla vittima quel grave disagio psichico, il bene costituzionalmente garantito della salute. In tale ipotesi, il bene protetto potrebbe essere individuato nella tutela della incolumità individuale. Pertanto, l’illecito de quo deve essere considerato un reato essenzialmente plurioffensivo.
In ordine alla natura giuridica, si configura un reato di danno, richiedendosi la lesione effettiva del bene giuridico protetto (o dei beni giuridici protetti nel caso in cui si opti per un reato plurioffensivo).
Non è stata accolta, infatti, la versione della Commissione Giustizia della Camera dei deputati che configurava l’illecito come reato di pericolo concreto, in quanto ciò avrebbe comportato un’eccessiva estensione dell’operatività del reato, con il rischio di incriminare fatti inoffensivi.
Inoltre, in base a quanto affermato, pare potersi concludere per la configurabilità di un reato di evento, per la consumazione del quale il legislatore richiede la realizzazione alternativa di una delle tre situazioni sopra esposte. Pare trattarsi, peraltro, di reato di evento a forma libera, in quanto, benché ad una prima lettura possa sembrare che la fattispecie in questione debba realizzarsi soltanto mediante le condotte di minaccia o molestia, è pur vero che le medesime possono concretarsi in una molteplicità di forme non aprioristicamente individuabili.
L’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, avendo cura di precisare che - qualificandosi lo stalking quale reato d’evento - il soggetto dovrà anche rappresentarsi e volere uno degli eventi descritti dalla norma.
In proposito va posto un punto fermo ed indiscutibile ai fini della presente decisione cautelare, ossia che il cardine della presente indagine è costituito dalle dichiarazioni accusatorie delle persone offese, precise, coerenti, dettagliate che, di per sé sole, (pur se, come si vedrà, ampiamente riscontrate da altri elementi d’indagine) possono costituire prova di colpevolezza ed, a fortiori, gravi indizi ex art. 273 c.p.p., ove superino il vaglio della verifica della loro attendibilità soggettiva ed oggettiva intrinseca da parte del Giudice (giurisprudenza pacifica: v. ex plurimis: Cass., 3 dicembre 2001, n. 43303, Panaro; Cass., 1° giugno 1999, n. 6910, Mazzella; Cass.,15 ottobre 1999, n. 11829, Ascani).
Infatti, per la Suprema Corte “ai fini dell’adozione di una misura cautelare personale, l’art. 273 cod. proc. pen. postula la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza quale “minimum” probatorio che deve inderogabilmente assistere l’adozione della misura, solo nel caso in cui sussista una prova indiziaria; quando, invece, sia presente una prova diretta, va escluso il ricorso al concetto di “gravità” inerente alla prova logica costituente l’indizio né occorre la verifica di attendibilità intrinseca o il riscontro esterno, in quanto il minimo di gravità indiziaria è soverchiato dal diverso e più soddisfacente grado di prova acquisita. Il che si verifica nell’ipotesi di prova testimoniale proveniente dalla persona offesa dal reato, purché non validamente inficiata, e che rappresenta un “plus” rispetto all’apporto richiesto dall’art. 273 cod. proc. pen. e non abbisogna, per l’emissione del provvedimento cautelare, né di altri elementi di prova nè di riscontro esterno” (Cass., sez. VI, 5 luglio/2 settembre 1995, n. 2803, Pozzessere; nello stesso senso Cass., sez. I, 27 maggio/14 luglio 1992, n. 2468, Abbinante, ove si è affermato il principio di diritto per il quale “Le dichiarazioni accusatorie della persona offesa possono assurgere, se intrinsecamente attendibili, al rango di “gravi indizi di colpevolezza”, ai fini dell’applicazione di misure cautelari, indipendentemente dall’esistenza o meno di elementi di riscontro che valgano a corroborarle”; principio che costituisce massima tralaticia per come affermato in tempi più da Cass., sez. II, 27 novembre/17 dicembre 2008, n. 46671).
In altri termini, come affermato da Cass. n. 39366 del 26 ottobre 2006: in tema di misure cautelari, il richiamo ad opera del comma primo bis dell’art. 273 cod. proc. pen. dei commi terzo e quarto dell’art.192 cod. proc. pen., non comporta la necessità che le dichiarazioni della persona offesa trovino riscontro in elementi esterni, così che esse possono ancora costituire da sole fonte di prova quando siano ritenute dal giudice, secondo il suo libero e motivato apprezzamento, attendibili sul piano oggetto e su quello soggettivo.
Nel caso di specie, le dichiarazioni delle persone offese, già di per sé precise e circostanziate, sono state confermate dalle numerose annotazioni di Polizia degli agenti intervenuti che danno atto delle minacce di morte riferite dal P.S. nei confronti dei loro familiari o comunque davano atto delle richieste di intervento da parte delle pp.oo. (v. annotazioni di servizio del 26 marzo, 2 e 3 aprile 2009).
In definitiva, gli indizi delineati a carico del prevenuto possiedono i caratteri della gravità e dell’univoca concludenza in ordine ai delitti ascrittigli.
Quello che connota il reato in oggetto, distinguendolo dai maltrattamenti , è infatti, come già detto, la circostanza che le condotte del denunciato, sono reiterate e ingenerano un fondato timore da parte della vittima di un male più grave, pur senza arrivare ad integrare i reati di lesioni o maltrattamenti .
Alla luce delle reiterate minacce, riferite dalla B. e dai suoi figli e la promessa di ucciderli a causa del rifiuto da parte delle pp.oo. di continuare a dilapidare il patrimonio familiare, le condotte di appostamento, le continue minacce e aggressioni non possono non essere lette come “atti persecutori” tali da ingenerare nella vittima uno stato di continua paura per sé stesse e da doversi continuamente “guardare alle spalle” così modificando le proprie normali abitudini di vita.
Infatti, nelle plurime denunce la B. ed i suoi figli hanno riferito di sentirsi perseguitati e di temere per la loro incolumità
Ritiene il Collegio che, alla luce di tutte le circostanze, permangano gravi esigenze cautelari nei confronti dell’appellato che legittimano la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati delle pp.oo. (in particolare: abitazione di B.A., P.L. e P. M.; luoghi di lavoro dei medesimi; abitazione dei prossimi congiunti degli stessi; area di 100 metri circostanti ai luoghi sopra detti, itinerari abituali tra i predetti luoghi), con conseguente divieto di comunicare con qualsiasi mezzo con le pp.oo.
La gravità del delitto commesso e la sfavorevole prognosi di astensione da future condotte delittuose escludono che la non lieve pena irroganda possa essere sospensivamente condizionata.
P.Q.M.
Visto l’art. 310 c.p.p.,
accoglie l’appello del Pm e, per l’effetto, previo annullamento dell’ordinanza emessa il 2 maggio 2009 dal Gip del Tribunale di Crotone, dispone l’applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati delle pp.oo. (in particolare: abitazione di B.A., P.L. e P. M.; luoghi di lavoro dei medesimi; abitazione dei prossimi congiunti degli stessi; area di 100 metri circostanti ai luoghi sopra detti, itinerari abituali tra i predetti luoghi), con conseguente divieto di comunicare con qualsiasi mezzo con le pp.oo.
Delega i C.C. territorialmente competenti a sovrintendere al controllo dell’osservanza delle prescrizioni imposte al custodito.
Si dà mandato alla cancelleria per le comunicazioni di legge e - previa verifica della definitività ex art. 310, comma 3, c.p.p. - per l’esecuzione del provvedimento nei confronti di P.S., mediante trasmissione di copia della presente ordinanza al Pm che ha richiesto l’applicazione della misura.
Così deciso in Catanzaro il 21 ottobre 2009
Il giudice estensore Il Presidente

TRACCIA n. 3 ATTO AMMINISTRATIVO -ESAME AVVOCATO 2011

L'università degli studi di Alfa acquistava la totalità delle quote della società privata Zeta, proprietaria dell'immobile Zeta, per destinarlo a sede universitaria.

Modificato l'oggetto sociale di Zeta, includendovi anche attività di progettazione (architettonica ed urbanistica) e costruzione, l'università deliberava di procedere alla scissione della società Zeta in due distinti enti: la società Gamma, destinata alla gestione del patrimonio immobiliare posseduto, e la società Delta cui si attribuivano compiti di progettazione e costruzione, previa cessione del ramo di azienda. I locali ordini degli architetti e degli ingegneri impugnavano gli atti con i quali era stata deliberata ed approvata la scissione della società Zeta, nonché quello con cui si attribuivano alla neo-costituita società Delta i compiti di progettazione e costruzione, richiedendo, tra l'altro, la decisione del ricorso ai sensi dell'art 119 c.p.a., lamentando lo svolgimento di attività concorrenziale nei confronti dei professionisti da loro tutelati.

Il candidato, assunte le vesti di legale dell'università, rediga l'atto ritenuto più idoneo alla tutela degli interessi della propria assistita illustrando le problematiche e gli istituti sottesi alla fattispecie in esame, con particolare riguardo alle questioni relative alla giurisdizione e all'interesse ad agire.

TRACCIA n. 2 ATTO PENALE -ESAME AVVOCATO 2011

Caio, dipendente del comune di Beta, viene sorpreso dal Sindaco mentre, per mezzo del computer dell'ufficio, naviga in internet visitando siti non istituzionali dai quali scarica, su archivi personali, immagini e filmati non attinenti alla pubblica funzione.

Viene denunciato e sottoposto a procedimento penale. Il computer viene sottoposto a sequestro.

Nel corso delle indagini si accerta, grazie alla consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero sul computer sequestrato, che la citata attività si è protratta per circa un anno, e che il numero dei file scaricati è di circa 10 mila. Rinviato a giudizio, Caio viene condannato alla pena di 3 anni di reclusione per il reato di peculato.

Il candidato, assunta la veste di difensore di Caio, analizzi il caso della fattispecie giuridica, evidenziando, tra l'altro, che le indagini difensive definitivamente svolte hanno dimostrato che l'ente gestore del servizio telefonico aveva stipulato con il comune di Beta un contratto con tariffa forfettaria denominato "tutto incluso".

TRACCIA n. 1 ATTO CIVILE -ESAME AVVOCATO 2011

Tizia e Sempronio citano in giudizio l'impresa Gamma, esponendo di aver acquistato con preliminare e successivo contratto definitivo un appartamento destinato a civile abitazione e di aver versato alla parte venditrice la somma di euro 140.000 mentre il prezzo indicato nei suddetti atti era di 95.000. Chiedono, pertanto, la restituzione della somma pagata in eccedenza oltre agli accessori di legge.

L'impresa edile Gamma sostiene, per contro, l'esistenza di un precedente preliminare di compravendita che recava il prezzo effettivo di euro 140.000 e che i contratti successivi erano stati simulati indicandosi il minor prezzo di euro 95.000 e ritiene inoltre di poter fornire prova testimoniale di tale simulazione.

Il candidato, assunte le vesti di avvocato dell'impresa edile Gamma, rediga l'atto giudiziario più opportuno, illustrando gli istituti e le problematiche sottese alla fattispecie.

TRACCIA n. 2 PARERE PENALE -ESAME AVVOCATO 2011

Il 20 gennaio del 2011 Tizio riceve da Caio della merce in conto vendita.

I contraenti convengono che Tizio debba esporre la merce nel proprio negozio, al fine di venderla ad un prezzo preventivamente determinato, nel termine di 4 mesi. L'accordo negoziale prevede che, alla scadenza stabilita, Tizio debba corrispondere a Caio il prezzo concordato, ovvero restituire la merce rimasta invenduta.

Nel corso dei 4 mesi Tizio e Caio continuano ad intrattenere regolarmente rapporti commerciali, nonché di personale frequentazione, sicché, alla scadenza del termine pattuito per la eventuale restituzione della merce rimasta invenduta, Caio non domanda nulla in merito alla esecuzione del primitivo contratto, né Tizio lo rende edotto del fatto che la merce è rimasta totalmente invenduta. Soltanto agli inizi del mese di luglio, a seguito di una discussione per divergenze di opinione in merito ad altri affari, Caio chiede conto della avvenuta esecuzione del contratto, ricevendo da Tizio risposte evasive.

Alla fine del mese di luglio i rapporti tra i due si rompono definitivamente. Al rientro dalle vacanze estive Caio fa un ulteriore tentativo di contattare Tizio per la restituzione della merce ovvero del corrispettivo e apprende dalla segretaria di Tizio che la merce è rimasta invenduta. Decide quindi di tutelare le proprie ragioni in sede penale.

Il candidato, assunte le vesti di legale di Caio, rediga motivato parere analizzando la fattispecie configurabile nel caso esposto, soffermandosi in particolare sulle problematiche correlate alla procedibilità dell'azione penale.

TRACCIA n. 1 PARERE PENALE -ESAME AVVOCATO 2011

Sempronio, Maresciallo della stazione dei carabinieri del Comune di Delta, avvalendosi della propria casella di posta elettronica non certificata, con dominio riferito al proprio ufficio e accesso riservato, mediante password, invia all'ufficio dell'anagrafe del Comune una e-mail, da lui sottoscritta, con la quale chiede che gli siano forniti tutti gli elenchi di tutti gli individui di sesso maschile e femminile nati negli anni 1993 e 1994, precisando che tali informazioni sono necessarie per lo svolgimento di un'indagine di polizia giudiziaria, indicando il numero di procedimento penale di riferimento della locale procura della repubblica. Di tale richiesta viene casualmente a conoscenza il comandante della stazione, il quale intuisce immediatamente, come poi effettivamente si accerterà, che non esiste alcuna indagine che richiede quel genere di accertamento.

Si accerta altresì che Caia, moglie del Maresciallo Sempronio è titolare di un'autoscuola, sicché l'acquisizione dei nominativi dei residenti nel Comune che da poco hanno compiuto o si accingono a compiere la maggiore età è finalizzata ad indirizzare mirate proposte pubblicitarie per i corsi di guida. Di tanto il Maresciallo Sempronio rende un’ampia confessione mediante memoria scritta indirizzata al pubblico ministero. In seguito temendo le conseguenze penali del fatto commesso, Sempronio si rivolge ad un avvocato.

Il candidato, assunte le vesti del legale, analizzato il fatto, valuti le fattispecie eventualmente configurabili redigendo motivato parere.

TRACCIA n. 2 PARERE CIVILE -ESAME AVVOCATO 2011

A Caio, che abita in un condominio, viene richiesto dalla ditta gamma, che fornisce il combustibile utilizzato nell'impianto di riscaldamento condominiale centralizzato, del pagamento dell'intera fornitura di gasolio.

Il candidato, assunta la veste di legale di Caio, rediga parere illustrando gli istituti sottese alla fattispecie, soffermandosi sulla solidarietà fra condomini delle obbligazioni contratte dal condominio.

TRACCIA n. 1 PARERE CIVILE -ESAME AVVOCATO 2011

L'agenzia immobiliare Beta, aveva ricevuto da Mevia, un mandato per la vendita di un immobile di sua proprietà. L'incarico era stato conferito in forma scritta con validità di un anno.

Alla scadenza, non avendo l'agenzia immobiliare reperito un acquirente per detto immobile, Mevia aveva revocato per iscritto il mandato.

Mevia concludeva successivamente la vendita del suo bene, a mezzo dell'intervento di altra agenzia immobiliare, l’agenzia Delta, alla quale la vendita era stata segnalata dalla agenzia Beta.

Il candidato assunta la veste di difensore della agenzia Beta, rediga motivato parere esponendo le problematiche sottese alla fattispecie in parola, in particolare l'eventuale riconoscimento parziale della provvigione.

domenica 18 settembre 2011

CONSIGLI AGLI STUDENTI DI GIURISPRUDENZA: COME STUDIARE

Come studiare

4 alleati...........4 amici:

  • codice
  • manuale
  • dizionario giuridico
  • dizionario lingua italiana

amore- passione atteggiamento psicologico propositivo ed entusiasmo

ponetevi questi interrogativi ogni volta che studiate un istituto:
- che cos'è....è la definizione espressa nella norma
  • a cosa serve? È la ratio legis....l'interesse tutelato il bene giuridico
  • come funziona? È la disciplina
  • quali sono i rapporti con istituti affini e quali sono le differenze con istituti diversi

dovete innanzitutto capire che la base è il codice
dovete partire dalle norme
dovete consultarlo in modo agevole e con cognizione di causa

solo dopo potete prendere in mano il manuale
il manuale commenta il codice, è un approfondimento suffragato da teorie dottrinali, molto spesso si concentra su tutte quelle dell'autore ecco perchè al limite sarebbe interessante acquistarne un'altro che le consideri tutte.

-Non studiate a memoria ed in modo nozionostico, dovete comprendere perfettamente ciò che leggete
-aiutatevi con i dizionari e fermatevi ogni volta che trovate termini nuovi: vedrete che vi approprierete di una miniera terminologica
-leggete le sentenze per esteso...
-guardate i siti giuridici

prendete in mano il codice e vedete come è strutturato

ad esempio il codice penale
si divide in 3 libri:
dei reati in generale...... corrispondente alla parte generale del dir penale
dei delitti in particolare.......puniti con reclusione e multa art 39 cp
delle contravvenzioni in particolare ...puniti con arresto e ammenda

il primo libro si divide in 7 titoli:
della legge penale
delle pene
del reato
della persona offesa
della modificazione applicaz ed esec pena
dell'estinzione reato e pena
delle sanzioni civili
delle misure di sicurezza

ciascun titolo si divide in capi
ogni capo si divide in sezioni
ogni sezione si divide in articoli
ogni articolo si divide in commi
il seconda comma è capoverso



giovedì 15 settembre 2011

L’ESAME DI DIRITTO PENALE-PARTE GENERALE

PREPARA L’ESAME DI DIRITTO PENALE –PARTE GENERALE CON GIURISTIEDIRITTO.IT
  • 30 video-lezioni su piattaforma e-learning a cura dell’avv. MARIA SABINA LEMBO del foro di Potenza (fondatore e responsabile giuridico del portale www.giuristiediritto.it)
  • 10 simulazioni prova esame con chiarimenti individualizzati su skype
  • alcune dispense in pdf
  • costo 250 euro + IVA
  • pagamento con postepay su 4023 6005 8584 4014

lunedì 11 luglio 2011

Le dodici regole morali di SANT'ALFONSO DEI LIGUORI




1. - Non bisogna accettare mai cause ingiuste, perché sono perniciose per la coscìenza e pel decoro.

2. - Non bisogna difendere una causa con mezzi illeciti e ingiusti.

3. - Non si deve aggravare il cliente di spese indoverose, altrimenti resta all'avvocato l'obbligo
della restituzione.
4. - Le cause dei clienti si devono trattare con quell’lmpegno con cui si trattano le cause proprie.

5. - E necessario lo studio dei processi per dedurne gli argomenti validi alla difesa della causa.

6. - La dilazione e la trascuratezza negli avvocati spesso dannifica i clienti, e si devono rifare i danni, altrimenti si pecca contro la giustizia.

7. - L'avvocato deve implorare da Dio l'aiuto nella difesa, perché Iddio è il primo protettore della giustizia.

8. - Non é lodevole un avvocato che accetta molte cause superiori a' suoi talenti, alle sue forze, e al tempo, che spesso gli mancherà per prepararsi alla difesa.

9. - La giustizia e l'onestà non devono mai separarsi dagli avvocati cattolici, anzi si devono sempre custodire come la pupilla degli, occhi.

10. -. Un avvocato che perde una causa per sua negligenza, si carica dell'obbligazione di rifar tutti i danni al suo cliente.

11. - Nel difender le cause bisogna essere veridico, sincero, rispettoso e ragionato.

12. - I requisiti di un avvocato sono la scienza, la diligenza, la verità, la fedeltà e la giustizia.

giovedì 7 luglio 2011

diffamazione a mezzo stampa

CASSAZIONE PENALE, Sezione I, Sentenza n. 41551 del 29 ottobre 2009
(diffamazione a mezzo stampa)

OSSERVA
Con sentenza in data 21.11.2008 la Corte di Appello di Reggio Calabria ha accolto la richiesta di revisione presentata il 26.2.2008 da M.G. relativamente alla sentenza n. 1873/02 in data 12.7.2002 del Tribunale di Messina, confermata il 19.11.2004 dalla Corte di Appello di Messina, passata in giudicato il 12.12.2005, e lo ha in conseguenza assolto dal reato di diffamazione per mezzo della stampa per cui aveva riportato in precedenza condanna. Il M. era stato ritenuto colpevole, con la sentenza del 12.7.2002, della offesa alla reputazione di S.B., commessa in (omissis), per avere affermato in una conferenza stampa, riportata nell'articolo pubblicato sul quotidiano Gazzetta del Sud dal titolo " M.: accuse ordite dall'ulivo", fra le altre cose, che lo S., insieme a C.R. e ad P. I., aveva ordito una montagna di accuse che aveva portato in carcere il Presidente della Provincia M.G. e quindi era stato condannato alla pena di Euro 400,00 di multa, oltre che al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile, da liquidarsi in separata sede.
Secondo la ricostruzione della sentenza in sede di revisione, S.B. aveva denunciato in data 16.10.1998 M. G., allora Presidente della Provincia - già sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere per i reati di corruzione e associazione a delinquere per i quali era stato indagato sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia P.I., registrate dallo S. - per avere sostenuto in una conferenza stampa, poi ripresa sulla carta stampata, di essere stato vittima di un complotto, ordito ai suoi danni dalle sinistre, ed in particolare da C.R., candidato per la Presidenza della Provincia per l'Ulivo, dallo stesso S.B., ex consigliere provinciale, e dal collaboratore di giustizia P.I., i quali avevano costruito una montagna di accuse che lo avevano portato in carcere.
Il Tribunale di Messina aveva fondato il giudizio di responsabilità del M. sulla circostanza che le espressione utilizzate dall'imputato avevano una chiara ed univoca valenza diffamatoria ed erano offensive della reputazione dello S., in quanto travalicavano i limiti della continenza e l'imputato non aveva dato prova della verità dei fatti attribuiti al querelante, per cui non potevano ricondursi ad un legittimo diritto di critica, costituendo invece l'affermazione di un fatto disdicevole e non provato e non potevano neppure trovare giustificazione in un intento di difesa che non poteva spingersi fino all'accusa di altre persone estranee al processo.
Successivamente il M., con sentenza della Corte di Appello di Catania 11.4.2007, definitiva in data 31.10.2007, in totale riforma della sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Ragusa in data 22.7.2003, veniva assolto per insussistenza del fatto dai reati di associazione per delinquere e corruzione scaturiti dalle dichiarazioni del collaboratore P., registrate dallo S. e quindi presentava istanza 26.2.2008 di revisione ai sensi dell'art. 630 c.p.p., lett. a) e lett. c), per inconciliabilità dei fatti posti a base della sentenza di condanna oggetto di revisione con quelli stabiliti con la sentenza definitiva di assoluzione della Corte di Appello di Catania, nonchè per la novità della prova sopravvenuta, costituita dalla sentenza della Corte di Appello di Catania, che aveva incidentalmente accertato la verità dei fatti affermati dal M. nell'intervista.
Alla revisione si opponeva lo S., che si costituiva parte civile anche nel giudizio di revisione, eccependo la mancanza di nesso causale tra la sentenza assolutoria, che era relativa soltanto ad alcuni dei delitti per i quali il M. era stato ripetutamente condannato e la diffamazione aggravata che restava tale, a prescindere dalla assoluzione, nonchè la mancanza del requisito della novità della prova in presenza di un elemento che era già stato esaminato nel processo per la diffamazione e che non poteva quindi essere oggetto ora di diversa valutazione.
La Corte di Appello di Reggio Calabria, esclusa la sussistenza di un conflitto di giudicati, ha accolto la richiesta di revisione sotto il profilo di cui all'art. 630 c.p.p., lett. c), ritenendo che la prova nuova - consistente nel giudicato della Corte di Appello di Catania, che aveva accertato la assoluta inaffidabilità del dichiarante P. il quale era riuscito ad intrufolarsi negli uffici provinciali spacciandosi per intermediario e procacciatore di appalti pubblici, ma, deluso nelle sue aspettative dal M., aveva poi coltivato un piano vendicativo nei confronti del M., sfociato nella chiamata in correità di quest'ultimo in relazione a comuni progetti di corrutela, smentiti però dalla mancata assegnazione di incarichi da parte del M. al P. - fosse idonea ad inficiare l'accusa posta a fondamento della sentenza di condanna per diffamazione poichè era rimasto altresì accertato che P., deluso dal M., aveva cercato soluzioni di ripiego incontrando gli avversari politici del M., S. e C. (che avevano registrato segretamente i colloqui intrattenuti con P.), che gli avevano fatto credere, senza che ciò fosse vero, di averlo denunciato, al solo fine di intimorirlo e di spingerlo alla denuncia nei confronti del M.. Da tali elementi la Corte di Appello di Reggio Calabria ha desunto che il M. non diceva il falso, o comunque era legittimamente convinto di non dirlo, durante la conferenza stampa, dal momento che la circostanza che le accuse provenissero dal P. e fossero state registrate dai suoi avversari politici C. e S., nel corso di reiterati incontri, potevano indurlo a ritenere che effettivamente essi fossero partecipi di un complotto ordito ai suoi danni per motivi di rivalità politica e non poteva neppure ritenersi che i toni usati dal M. esorbitassero dai limiti della continenza poichè nell'intervista aveva usato un linguaggio corretto e le sue accuse erano inserite, in modo pertinente, in un contesto teso a dimostrare la ingiustizia della sua detenzione carceraria che egli riteneva, a ragione, come emerso successivamente, conseguenza di accuse false; il che imponeva di ritenere insussistente, alla luce degli elementi di novità apportati dalla sentenza della Corte di Appello di Catania, l'elemento oggettivo del reato di diffamazione aggravata a carico del M..
Contro la sentenza hanno presentato ricorso in data 4 aprile 2009 S. B. personalmente ed in data 6 aprile 2009 i suoi difensori nominati procuratori speciali, questi ultimi anche in ordine alla statuizioni civili derivanti dalla sentenza impugnata, chiedendo l'annullamento senza rinvio della detta sentenza e lamentando con due separati motivi:
- violazione dell'art. 631 c.p.p. e art. 630 c.p.p., lett. c):
erroneamente era stata ritenuta ammissibile la istanza di revisione basata sulla sentenza della Corte di Appello di Catania, valutata idonea a contrastare l'accusa, trattandosi al contrario di sentenza irrilevante ai fini di un proscioglimento del M. per il reato di diffamazione, poichè, anche se il P. era stato ritenuto in altra sede individuo non affidabile così da comportare la assoluzione del M. dai reati di associazione e di corruzione che si fondavano, per gran parte, su quelle accuse, ciò non era in grado di confutare la condanna del M. per il reato di diffamazione e non lo sarebbe stata neppure se avesse accertato la sussistenza di un vero e proprio complotto ai danni del M., poichè quest'ultimo era stato condannato per avere attribuito allo S. fatti e qualità disdicevoli (fra l'altro definendo lo S. unitamente ad altri, nel corso della conferenza stampa, "compagni di merenda", facente parte di una "brigata", coautore di un "patto leonino" a suo danno) che non avevano alcun rapporto con la inattendibilità del P., così superando il limite della continenza, il cui rispetto era sempre richiesto affinchè si potesse invocare la scriminante di cui all'art. 51 c.p.;
- inosservanza od erronea applicazione degli artt. 595 e 51 c.p., art. 21 Cost., nonchè manifesta illogicità della motivazione della sentenza: erroneamente era stata ritenuta sussistente la esimente dell'esercizio di un diritto lesivo della altrui reputazione in assenza dei presupposti individuati dalla giurisprudenza consolidata di legittimità ed in particolare in violazione dei principi della verità della notizia e del rigoroso controllo della attendibilità della fonte e della continenza, consistente nella correttezza della esposizione dei fatti in modo che siano vietate gratuite aggressioni dell'altrui reputazione; la verità era infatti cosa diversa dalla verosimiglianza dei fatti narrati ed era quella che risultava al momento in cui la notizia veniva diffusa (quando cioè il M. non aveva alcuna prova dell'assunto complotto e si trattava di soggettive supposizioni che andavano a ledere la reputazione dei suoi avversari politici) e non quella accertata successivamente e nella specie non accertata neppure successivamente poichè, se P. era inaffidabile, lo era su tutto e non soltanto quando accusava M.;
il limite della continenza non era stato rispettato poichè le dichiarazioni rese alla stampa e da questa riportate virgolettate (compagni di merende ed altro) avevano una univoca valenza diffamatoria e risultavano eccessive ed aggressive dell'interesse morale della persona, trascendendo in attacchi personali diretti a colpire su un piano individuale la sfera morale del soggetto criticato, sfera tutelata penalmente.
Con comunicazione pervenuta il 14.9.2008 S.B. personalmente ha rilevato di non avere ricevuto la comunicazione della fissazione dell'odierna udienza e che per sua volontà i difensori non sarebbero stati presenti in udienza.
All'odierna udienza si è presentato il solo Procuratore Generale presso questa Corte che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Il rilievo in ordine alla mancata notificazione della fissazione dell'odierna udienza allo S. personalmente è inconferente poichè, a norma del combinato disposto di cui all'art. 610 c.p., comma 5 e art. 613 c.p.p., commi 2 e 4, che riguardano specificamente il giudizio di Cassazione, la parte personalmente ha diritto all'avviso solo se non assistita dal difensore di fiducia mentre nella specie la parte - comunque a conoscenza della precisa data dell'udienza indicata nella nota fatta pervenire dalla stessa in data 14.9.2009 - era rappresentata ed assistita da ben due difensori, Avvocato Salvatore Grande e Avvocato Gaetano Sano, entrambi del foro di Siracusa, nominati suoi difensori e procuratori speciali con mandato professionale e procura speciale in calce al ricorso depositato il 6 aprile 2009, che hanno ricevuto la notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza.
Il ricorso, sottoscritto dai difensori dello S. e depositato il 6 aprile 2006, al contrario di quello inizialmente presentato dalla parte personalmente, è ammissibile poichè contiene il riferimento agli effetti civili che vuole conseguire e proviene da avvocati iscritti all'albo speciale presso la Corte di Cassazione (v. Cass. n. 25525 del 2008, rv. 240646; Cass. n. 5070 del 2006 rv. 233273).
Lo stesso è peraltro infondato e deve essere come tale rigettato.
La verità dei fatti affermati dal M. nell'intervista con riguardo alla tesi del complotto ordito ai suoi danni dai suoi avversari politici, fra cui S., è stata ritenuta accertata dalla sentenza impugnata, con giudizio di fatto incensurabile in sede di legittimità, sulla base del giudicato penale della Corte di Appello di Catania dell'11.4.2007 che aveva assolto S. per totale insussistenza del fatto dai reati di associazione per delinquere e corruzione scaturiti dalle dichiarazioni del collaboratore P., che erano state registrate dallo S. al fine di costituire la prova a carico del suo antagonista M. il quale era stato sottoposto a misura cautelare in base a quelle registrazioni.
Si trattava di una prova sicuramente nuova in quanto integrata dai nuovi accertamenti svolti nel processo per associazione per delinquere e corruzione a carico dello S., che avevano portato alla sua assoluzione definitiva, non solo in termini di nuove valutazione, ma anche di nuovi fatti quali l'accertamento del piano vendicativo nei confronti del M. ordito dal P. ed agevolato dagli avversari politici del M. ( S. e C.) che avevano fatto credere a P., senza che ciò fosse vero, di averlo denunciato al solo fine di spingerlo alla denuncia contro il M..
La circostanza che, durante la conferenza stampa, unitamente alla esposizione della tesi del complotto (chiaramente emersa una volta che il M. era stato scarcerato, anche se accertata con sentenza definitiva anni dopo e di cui il M. poteva quindi parlare in quel momento in termini di certezza soggettiva, poi però diventata oggettiva e quindi "vera" in sede di accertamento giudiziale definitivo), il M. avesse aggiunto delle espressioni "pesanti" nei confronti de suoi accusatori (quali "compagni di merenda", "brigata" ecc.) non appare idoneo al superamento del limite della "continenza" (costituente, unitamente ai principi della pertinenza e della verità, le condizioni per l'esercizio legittimo dei diritti di critica e di cronaca) poichè il diritto di critica presenta una sua necessaria elasticità e non è necessariamente escluso dall'uso di un epiteto infamante, dovendo la valutazione del giudice di merito soppesare se il ricorso ad aggettivi o frasi particolarmente aspri sia o meno funzionale alla eventuale assoluta gravità oggettiva della situazione rappresentata (v, Cass. sez. 5 n. 11950 del 2005, rv. 231711); come nel caso in esame in cui non appare manifestamente illogica la valutazione del giudice di merito in ordine alla pertinenza delle espressioni adottate nel momento in cui il M. era stato appena scarcerato dopo avere subito un periodo di ingiusta detenzione e si trovava quindi in uno stato di agitazione che giustificava quelle espressioni sicuramente "pesanti", ma che non costituivano attacchi personali o gratuiti alla sfera morale dei soggetti, svincolati dalla situazione rappresentata, in quanto invece specificamente funzionali ad illustrare la tesi del complotto che presupponeva più soggetti (compagni o brigata) intenti ad attività illecite contro l'avversario politico.
Consegue al rigetto del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali (art. 616 c.p.p.).

P.Q.M.
LA CORTE SEZIONE PRIMA PENALE Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali


mercoledì 6 luglio 2011

ingiuria della suocera

CASSAZIONE PENALE, Sezione V, Sentenza n. 35874 del 16 settembre 2009
(ingiuria della suocera)

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con sentenza in data 11 dicembre 2008 il Tribunale di Roma in composizione monocratica, confermando la decisione assunta dal locale giudice di pace, ha riconosciuto D.B.L. responsabile dei reati di ingiuria e lesione volontaria in danno della moglie C.F.V.L.; ha quindi tenuto ferma la sua condanna alla pena di legge e al risarcimento dei danni in favore della parte civile.
Secondo l'ipotesi accusatoria, recepita dal giudice di merito, il D. B. aveva pronunciato le espressioni "bocchinara, puttana, stronza", ritenute offensive per la C. anche se riferite alla di lei madre; aveva poi colpito la persona offesa con una testata alla bocca.
Ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, per il tramite del difensore, affidandolo a tre motivi.
Col primo motivo il ricorrente denuncia errata applicazione dell'art. 120 c.p., per essersi ritenuta la C. legittimata a querelarsi sebbene le parole offensive fossero state rivolte alla madre della persona offesa, non presente al fatto.
Col secondo motivo lamenta la mancata applicazione dell'esimente della provocazione.
Col terzo motivo denuncia errata valutazione delle risultanze probatorie, con specifico riferimento alla deposizione del teste D.B.J., figlio delle parti.
In atti vi è una memoria della parte civile, con cui si contrastano le argomentazioni del ricorrente.
Il ricorso è inammissibile, per le ragioni di seguito esposte.
Manifestamente infondato è il primo motivo. La legittimazione della C. a presentare querela nei confronti del D.B. è derivata dalla sua qualità di persona offesa dal reato. Ed invero, per quanto gli epiteti e le volgari espressioni di disprezzo pronunciate dall'imputato nel rivolgersi alla C. si riferissero ad altro soggetto, e cioè alla madre di costei, non vi è dubbio che ne sia derivata una lesione del decoro della stessa interlocutrice: il che inevitabilmente accade quando sussiste uno stretto legame parentale fra la persona alla quale le espressioni offensive sono comunicate e quella destinataria delle offese, traducendosi tale condotta in una mancanza, nei confronti del percettore di tali espressioni, del rispetto che, quale componente della dignità umana, è dovuto a ciascuno dei consociati.
L'inammissibilità del secondo motivo discende dal disposto dell'art. 606 c.p.p., comma 3, in quanto la denunciata violazione dell'art. 599 c.p., comma 2 non era stata dedotta con i motivi di appello.
Il terzo motivo esula dal novero di quelli consentiti nel giudizio di cassazione.
Infatti le censure con esso elevate, dietro l'apparente denuncia di vizi della motivazione, si traducono nella sollecitazione di un riesame del merito - non consentito in sede di legittimità - attraverso la rinnovata valutazione degli elementi probatori acquisiti.
La Corte territoriale ha dato pienamente conto delle ragioni che l'hanno indotta a prestar fede alla versione dei fatti fornita dalla C.; a tal fine ha considerato che la veridicità della sua narrazione ha trovato conferma non soltanto nella prova documentale costituita dalla certificazione medica, ma anche nel fatto stesso che la persona offesa si sia immediatamente recata dai carabinieri per denunciare il fatto; e la stessa deposizione testimoniale del figlio Jacopo, nella quale quel giudice ha pur colto un tentativo di mettere in dubbio la volontarietà della lesione per non colpevolizzare il padre, ha tuttavia confermato a suo avviso l'obbiettività del gesto violento compiuto dal D.B., rendendo vieppiù credibile l'assunto della persona offesa, che già altre volte era stata colpita dal marito (ancora per ammissione del figlio).
Della linea argomentativa così sviluppata il ricorrente non segnala alcuna caduta di consequenzialità, che emerga ictu oculi dal testo stesso del provvedimento; mentre il suo tentativo di accreditare una diversa lettura delle deposizioni testimoniali si risolve nella prospettazione del fatto storico alternativa a quella fatta motivatamente propria dal giudice di merito: il che non può trovare spazio nel giudizio di cassazione.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso conseguono le statuizioni di cui all'art. 616 c.p.p..
Spetta alla parte civile, che è comparsa in udienza e ha presentato le conclusioni scritte, la rifusione delle spese di difesa sostenute nel presente giudizio di legittimità; la relativa liquidazione è effettuata in Euro 2.200,00, comprensivi di onorari, da maggiorarsi in ragione degli accessori di legge.

P.Q.M.
la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel presente grado di giudizio, che si liquidano in complessivi Euro 2.200,00, comprensivi di onorari, oltre accessori come per legge.

ingiuria e minaccia e rapporti con lo stato di provocazione

CASSAZIONE PENALE, Sezione IV, Sentenza n. 34247 del 4 settembre 2009
(ingiuria e minaccia e rapporti con lo stato di provocazione)

IN FATTO
Con sentenza del 24.11.2008 il Giudice di Pace di Acri ha assolto C.E. dall'addebito di minacce in pregiudizio di M.M. ("... ti squarto") perchè il fatto non sussiste, con la formula dell'art. 530 cpv. cod. pen. e dall'accusa di ingiurie in danno della predetta M. ("brutta puttana") per avere agito in istato di provocazione ex art. 599 c.p., comma 2.
Ricorre il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza deducendo - l'inosservanza della legge penale e processuale ed il vizio di motivazione nel giudizio di inaffidabilità della voce della persona offesa, rapportato a quanto risultante dalla querela e quanto riferito dalla stessa, smentito da accertamenti; trascurando le dichiarazioni di altri testimoni, che confermarono l'episodio narrato dalla querelante ovvero richiamando circostanze non risultanti dagli atti; omettendo di motivare sulle ragioni di minor credibilità della testimone della minorenne C.E. V.; palesando in tal modo un atteggiamento di pregiudiziale avversione alla tesi di accusa, ecc; - la violazione della legge penale per avere ravvisato nel comportamento della M., che aveva "rubato il marito della propria figlia" una situazione descritta dall'art. 599 c.p., comma 2, ad esimente delle ingiurie.

IN DIRITTO
Il ricorso non è fondato.
Il primo motivo del ricorrente, dalla prosa talora oscura, è inammissibile perchè grandemente versato in fatto: la valutazione giudiziale delle risultanze probatorie è accompagnata da giustificazione sostanzialmente adeguata. Trattasi di vicenda dalle dimensioni modeste, animata da risalenti rancori, in cui l'improprio richiamo probatorio alle risultanze portate dalla querela (ed a fatti che sono estranei al portato probatorio versato al dibattimento) viene superato dalle puntuali notazioni sulla dubbia attendibilità della voce della persona offesa, attese le tensioni non sopite tra i protagonisti. Non è consentito al giudice di legittimità scendere ulteriormente nel vaglio della considerazione espressa sui risultati istruttori dal giudice di merito, quando lo sviluppo argomentativo fornisce sufficiente traccia del percorso logico seguito a sostegno del convincimento giudiziale.
Del pari infondato è il secondo mezzo.
Certamente la "sottrazione", resa con il consenso delle parti, del coniuge non può qualificarsi connotata da illiceità penale, essendo stato abrogato il reato di adulterio. Ma, del pari, è certo che al momento della separazione dei coniugi è possibile ravvisare profili di "addebito" e, dunque, suscettibili di valutazione critica: il rispetto dell'accordo sottostante al matrimonio e della dignità di ogni componente del nucleo familiare assume il connotato di un preciso diritto a cui corrisponde responsabilità civile in capo al responsabile della relativa lesione. Come tale la condotta di chi cagiona la rottura del vincolo coniugale, così come la stessa infedeltà del coniuge, possono, a buon titolo, ritenersi presupposto della speciale esimente dell'art. 599 c.p. Esimente applicabile anche nel caso in cui la reazione dell'agente sia stata diretta contro persona diversa dal provocatore, quando quest'ultima sia legato all'offeso da rapporti tali da giustificare, alla stregua delle comuni regole di esperienza, lo stato d'ira e quindi la reazione offensiva.
Pertanto la decisione rispetta la corretta lettura normativa ed il ricorso risulta infondato e viene rigettato.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

martedì 5 luglio 2011

ESTORSIONE

Cassazione, Sez. II, 20 aprile 2010, n. 15111
(Pres. Casucci – Rel. Bronzini)
 Svolgimento del processo

Con sentenza del 26.2.2008 la Corte di appello di Napoli confermava la sentenza emessa dal GUP del Tribunale di S. Maria C. V. in data 4.6.2006 di condanna del ricorrente per il reato di estorsione alla pena di anni due, mesi due di reclusione ed euro 300,00 di multa.
L’imputato avrebbe costretto la moglie alla quale prima in sede di separazione poi in sede di divorzio era stata affidata l’abitazione coniugale di proprietà dei familiari del ricorrente con ingiurie e minacce di morte ad abbandonare la detta abitazione e trasferirsi altrove.
Ricorre l’imputato che con un primo motivo allega che manca l’elemento dell’ingiusto profitto perché l’abitazione non era di proprietà della parte offesa e questa aveva già manifestato l’intenzione di trasferirsi altrove.
Inoltre le dichiarazioni della donna erano prive di sostanziali conferme.
Infine, al più, era ravvisabile il reato di cui all’art. 393 c.p. in quanto il ricorrente poteva adire il giudice per ottenere l’immobile che era di sua proprietà.

Motivi della decisione

Il ricorso, stante la sua manifesta infondatezza, va dichiarato inammissibile.
Circa il primo motivo i giudici di merito hanno accertato che in seguito alle minacce, insulti ed atti di violenza posti in essere dall’imputato la moglie fu indotta a lasciare l’abitazione che le era stata affidata sia in sede di separazione che di divorzio. Tali episodi emergono dalle precise ed univoche dichiarazioni erse dalla p.o. e il giudice di primo grado ha indicato i riscontri derivanti dalle dichiarazioni rese dai testi I., G. S., S. A., M. G..
Il motivo è assolutamente generico perché ignora le dette dichiarazioni e non sottopone neppure a specifiche censure le dichiarazioni della moglie. L’ipotesi che la stessa abbia volontariamente abbandonato l’appartamento perché desiderava spostarsi altrove è smentita dalle sentenze di merito e non vengono indicati gli elementi dai quali questa ipotesi sarebbe confermata. Pur essendo l’appartamento di proprietà dei familiari del ricorrente l’ingiusto profitto è evidente, posto che l’imputato, essendo stato l’immobile affidato alla moglie sia in sede di separazione che di divorzio, non ne aveva la disponibilità.
Quanto all’ultima doglianza circa l’applicabilità dell’art. 393 c.p., il motivo è generico. Certamente l’imputato poteva in astratto adire il giudice ma facendo valere ragioni di diritto che non vengono nemmeno indicate.
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di mille euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di euro mille alla Cassa delle ammende.

NON SI CONFIGURA IL PECULATO SE L'USO PRIVATO DEL CELLULARE DI SERVIZIO È MODESTO

Cassazione, Sez. VI, 25 novembre 2010, n. 41709
    (Pres. De Roberto – Rel. Colla)


Fatto e diritto
Con la sentenza in epigrafe il G.u.p. del Tribunale di Verbania ha disposto non luogo a procedere nei confronti di M. E. in ordine ai reati di peculato (capo a), contestatogli in alternativa al reato di abuso di ufficio (capo b), per avere, quale dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune di Omissis, e pertanto pubblico ufficiale, utilizzato il telefono cellulare assegnatogli per ragioni di ufficio per contatti con privati (276 messaggi SMS e 625 conversazioni) per un totale di ore 25,52,03 di impegno della utenza e un costo di euro 75,49. Uguale statuizione ha emesso nei confronti dell’E. in relazione al reato ex art. 323 sub c) contestatogli per avere utilizzato il computer dell’ufficio collegato con la rete Internet per ragioni del tutto personali.
Considerava il G.u.p. che, in ragione di una reiterazione di condotte che comportavano modesti costi, doveva concludersi per “l’assenza di atti appropriativi di valore economico sufficiente per la configurabilità del delitto di peculato”. Rilevava quindi che neppure era configurabile il reato di abuso di ufficio in considerazione della mancanza dell’elemento costitutivo del reato consistente nell’ingiusto vantaggio patrimoniale “rappresentato da un effettivo e concreto incremento economico del patrimonio del beneficiato quale conseguenza della condotta abusiva”. Doveva poi escludersi la sussistenza del reato di abuso di ufficio in relazione all’utilizzo del computer dell’ufficio per usi personali perché il Comune di Omissis aveva con Telecom s.p.a. un abbonamento a costo fisso per la navigazione in Internet, mancando quindi, anche per tale comportamento, un ingiusto vantaggio patrimoniale al pubblico ufficiale, nemmeno ipotizzabile sotto il profilo di risparmio di spesa.
Avverso la sentenza propongono ricorso per cassazione il Procuratore generale e il Procuratore della Repubblica. Entrambi lamentano inosservanza o erronea applicazione di legge. Il Procuratore della Repubblica censura la sentenza anche per mancanza e contraddittorietà della motivazione. Quest’ultimo, in particolare, insiste per la configurabilità del reato di peculato sub a). Sottolinea la non uniformità della giurisprudenza di questa corte di cassazione in ordine a vicende analoghe e soprattutto la differenza di situazioni di fatto prese in considerazione da detta giurisprudenza. Ragione per la quale si profilerebbe come opportuna la decisione del giudice del dibattimento, sussistendo comunque elementi idonei per sostenere la pubblica accusa. Entrambi i ricorrenti deducono, sotto il profilo del reato di abuso di ufficio, come appaia evidente l’ingiusto vantaggio patrimoniale che l’indagato si è procurato.
L’indagato ha depositato memoria in data 15 ottobre 2010 con la quale ha chiesto il rigetto dei ricorsi.
I ricorsi sono inammissibili.
Per quanto attiene alla contestazione dei reati sub a) e b), se è vero che in punto di reato di peculato in caso di utilizzo da parte del pubblico ufficiale dei telefoni di cui ha la disponibilità per ragioni di ufficio per comunicazioni di carattere privato la giurisprudenza di questa corte di cassazione ha giudicato in modo differente, è anche vero che le diversità sono dovute essenzialmente alla diversa misura di tale utilizzazioni, laddove tutte le sentenze pronunciate sono concordi nel ritenere che danni al patrimonio della pubblica amministrazione di scarsa entità finiscono per essere irrilevanti per rivelarsi le condotte inoffensive del bene giuridico tutelato. Nel caso, il G.u.p. ha giudicato su una vicenda in cui il danno arrecato era di circa 75 euro in un arco temporale di poco più di due anni per contatti di breve durata con un numero ristretto di persone. Tale valutazione non appare irragionevole al Collegio decidente, avuti riguardo al raffrontato con i casi che si sono presentati ali esame della Corte di cassazione. I ricorsi appaiono quindi inammissibili per contenere censure non consentite nel giudizio di cassazione in quanto attinenti ad apprezzamenti e valutazioni dei dati di fatto riservati al giudice di merito, sottratti alla cognizione del giudice di legittimità siccome sorretti, nella specie, da una motivazione congrua e immune da censure di ordine logico, con la quale il G.u.p. ha spiegato adeguatamente le ragioni per le quali non ha ritenuto di sottoporre al vaglio del giudice del dibattimento una vicenda caratterizzata dalla raccolta di elementi insufficienti o contraddittori per sostenere l’accusa. Ragioni che hanno altresì condotto il giudicante a ritenere la insussistenza di un effettivo e concreto incremento economico del beneficiario idoneo a configurare il requisito dell’ingiusto vantaggio patrimoniale con riferimento al reato di abuso di ufficio.
È anche corretta la decisione assunta in ordine al capo c), essendo emerso che il Comune di Omissis aveva contratto con Telecom un abbonamento a costo fisso per l’accesso in Internet con la conseguenza che nessun danno è stato cagionato alla pubblica amministrazione. Neanche in ordine a tale fattispecie è ravvisabile un concreto incremento patrimoniale da parte dell’E. e quindi un vantaggio ingiusto. Neppure può ravvisarsi il reato di abuso di ufficio sotto il profilo del consumo di energie derivanti dall’utilizzo del computer, mancando anche in tal caso, per quest’ultima causale, un apprezzabile nocumento nei confronti della stessa amministrazione.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi.



domenica 3 luglio 2011

CONTATTI

STUDIO LEGALE
Penale -Tributario - Civile - Minorile
Avv. Maria Sabina Lembo
portale giuridico: www.giuristiediritto.it

sabato 2 luglio 2011

CYBERSTALKING

Atti persecutori  o Stalking  ART 612 bis c.p.
Integra l'elemento materiale del delitto di atti persecutori il reiterato invio alla persona offesa di "sms" e di messaggi di posta elettronica o postati sui cosiddetti "social network" (ad esempio "facebook"), nonché la divulgazione attraverso questi ultimi di filmati ritraenti rapporti sessuali intrattenuti dall'autore del reato con la medesima.
Cass. pen., sez. VI, 30 agosto 2010, n. 32404 ( 16 luglio 2010)

venerdì 1 luglio 2011

SCHEDA INFORMATIVA

SCHEDA INFORMATIVA

L' avv . Maria Sabina Lembo esercita nel foro di Potenza e su tutto il territorio nazionale la libera professione forense.
Vive in Basilicata in un piccolo paese della provincia di Potenza.
La sua passione per il diritto penale e le discipline ad esso connesse, lo studio approfondito delle discipline processual-penalistiche e l’aggiornamento giurisprudenziale, incessante, mirato e continuo, hanno incentivato la stesura di tracce papabili e di svolgimenti di pareri penali motivati, al fine di trasmettere un buon metodo di lavoro da un punto di vista logico-giuridico e da un punto di vista linguistico, per affrontare con maggiore sicurezza la prova scritta e per padroneggiare qualsiasi problematica giuridica, durante lo svolgimento della professione forense.
Le video-esercitazioni che seguono vertono sugli argomenti di maggiore attualità e mettono a fuoco le problematiche maggiormente dibattute in dottrina e giurisprudenza, con un taglio spiccatamente e volutamente pratico, pur senza trascurare gli aspetti teorici.
A conclusione di ogni parere è riportata la sentenza di legittimità che lo ha ispirato.
Il lavoro si concentra, soprattutto, sui singoli reati (c.d. parte speciale del diritto penale) con casi, che sviscerano aspetti sostanziali e processuali, risolvendo tutte le problematiche prospettate dalla traccia.
Il metodo proposto governa tutti i pareri pro-veritate proposti ed elaborati e conduce gradualmente il candidato nel lavoro critico e personale di organizzazione e di elaborazione di un parere.
Da un punto di vista linguistico si opta per uno stile semplice, senza fronzoli ed elucubrazioni mentali.
Lo sforzo dell’autrice è consistito, materialmente, nel simulare la prova scritta, utilizzando esclusivamente il codice commentato con la giurisprudenza, suggerendo come sia possibile, grazie ad un buon metodo ed anche conoscendo poco un istituto giuridico, essere in grado di focalizzarne i tratti salienti e di risolvere le problematiche, con un utilizzo sapiente ed accurato dei prevalenti e recenti orientamenti giurisprudenziali di legittimità.
In questo modo sarà possibile migliorare la preparazione generale, la capacità di ragionare e la tecnica espositiva del candidato-praticante, aiutandolo a redigere prove scritte dal sicuro esito positivo secondo i precisi criteri di valutazione attualmente adottati dalle commissioni d’esame (chiarezza, logicità e rigore metodologico, capacità di individuare la soluzione specifica, conoscenza degli istituti trattati, grammatica, sintassi e padronanza della lingua, tecnica espositiva).