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MARIA SABINA LEMBO- Avvocato penalista e tributarista, Giornalista pubblicista iscritta all'Albo, Autore di pubblicazioni giuridiche, Relatore e chairman in convegni giuridici,Fondatore e Responsabile giuridico di www.giuristiediritto.it

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lunedì 11 luglio 2011

Le dodici regole morali di SANT'ALFONSO DEI LIGUORI




1. - Non bisogna accettare mai cause ingiuste, perché sono perniciose per la coscìenza e pel decoro.

2. - Non bisogna difendere una causa con mezzi illeciti e ingiusti.

3. - Non si deve aggravare il cliente di spese indoverose, altrimenti resta all'avvocato l'obbligo
della restituzione.
4. - Le cause dei clienti si devono trattare con quell’lmpegno con cui si trattano le cause proprie.

5. - E necessario lo studio dei processi per dedurne gli argomenti validi alla difesa della causa.

6. - La dilazione e la trascuratezza negli avvocati spesso dannifica i clienti, e si devono rifare i danni, altrimenti si pecca contro la giustizia.

7. - L'avvocato deve implorare da Dio l'aiuto nella difesa, perché Iddio è il primo protettore della giustizia.

8. - Non é lodevole un avvocato che accetta molte cause superiori a' suoi talenti, alle sue forze, e al tempo, che spesso gli mancherà per prepararsi alla difesa.

9. - La giustizia e l'onestà non devono mai separarsi dagli avvocati cattolici, anzi si devono sempre custodire come la pupilla degli, occhi.

10. -. Un avvocato che perde una causa per sua negligenza, si carica dell'obbligazione di rifar tutti i danni al suo cliente.

11. - Nel difender le cause bisogna essere veridico, sincero, rispettoso e ragionato.

12. - I requisiti di un avvocato sono la scienza, la diligenza, la verità, la fedeltà e la giustizia.

giovedì 7 luglio 2011

diffamazione a mezzo stampa

CASSAZIONE PENALE, Sezione I, Sentenza n. 41551 del 29 ottobre 2009
(diffamazione a mezzo stampa)

OSSERVA
Con sentenza in data 21.11.2008 la Corte di Appello di Reggio Calabria ha accolto la richiesta di revisione presentata il 26.2.2008 da M.G. relativamente alla sentenza n. 1873/02 in data 12.7.2002 del Tribunale di Messina, confermata il 19.11.2004 dalla Corte di Appello di Messina, passata in giudicato il 12.12.2005, e lo ha in conseguenza assolto dal reato di diffamazione per mezzo della stampa per cui aveva riportato in precedenza condanna. Il M. era stato ritenuto colpevole, con la sentenza del 12.7.2002, della offesa alla reputazione di S.B., commessa in (omissis), per avere affermato in una conferenza stampa, riportata nell'articolo pubblicato sul quotidiano Gazzetta del Sud dal titolo " M.: accuse ordite dall'ulivo", fra le altre cose, che lo S., insieme a C.R. e ad P. I., aveva ordito una montagna di accuse che aveva portato in carcere il Presidente della Provincia M.G. e quindi era stato condannato alla pena di Euro 400,00 di multa, oltre che al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile, da liquidarsi in separata sede.
Secondo la ricostruzione della sentenza in sede di revisione, S.B. aveva denunciato in data 16.10.1998 M. G., allora Presidente della Provincia - già sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere per i reati di corruzione e associazione a delinquere per i quali era stato indagato sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia P.I., registrate dallo S. - per avere sostenuto in una conferenza stampa, poi ripresa sulla carta stampata, di essere stato vittima di un complotto, ordito ai suoi danni dalle sinistre, ed in particolare da C.R., candidato per la Presidenza della Provincia per l'Ulivo, dallo stesso S.B., ex consigliere provinciale, e dal collaboratore di giustizia P.I., i quali avevano costruito una montagna di accuse che lo avevano portato in carcere.
Il Tribunale di Messina aveva fondato il giudizio di responsabilità del M. sulla circostanza che le espressione utilizzate dall'imputato avevano una chiara ed univoca valenza diffamatoria ed erano offensive della reputazione dello S., in quanto travalicavano i limiti della continenza e l'imputato non aveva dato prova della verità dei fatti attribuiti al querelante, per cui non potevano ricondursi ad un legittimo diritto di critica, costituendo invece l'affermazione di un fatto disdicevole e non provato e non potevano neppure trovare giustificazione in un intento di difesa che non poteva spingersi fino all'accusa di altre persone estranee al processo.
Successivamente il M., con sentenza della Corte di Appello di Catania 11.4.2007, definitiva in data 31.10.2007, in totale riforma della sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Ragusa in data 22.7.2003, veniva assolto per insussistenza del fatto dai reati di associazione per delinquere e corruzione scaturiti dalle dichiarazioni del collaboratore P., registrate dallo S. e quindi presentava istanza 26.2.2008 di revisione ai sensi dell'art. 630 c.p.p., lett. a) e lett. c), per inconciliabilità dei fatti posti a base della sentenza di condanna oggetto di revisione con quelli stabiliti con la sentenza definitiva di assoluzione della Corte di Appello di Catania, nonchè per la novità della prova sopravvenuta, costituita dalla sentenza della Corte di Appello di Catania, che aveva incidentalmente accertato la verità dei fatti affermati dal M. nell'intervista.
Alla revisione si opponeva lo S., che si costituiva parte civile anche nel giudizio di revisione, eccependo la mancanza di nesso causale tra la sentenza assolutoria, che era relativa soltanto ad alcuni dei delitti per i quali il M. era stato ripetutamente condannato e la diffamazione aggravata che restava tale, a prescindere dalla assoluzione, nonchè la mancanza del requisito della novità della prova in presenza di un elemento che era già stato esaminato nel processo per la diffamazione e che non poteva quindi essere oggetto ora di diversa valutazione.
La Corte di Appello di Reggio Calabria, esclusa la sussistenza di un conflitto di giudicati, ha accolto la richiesta di revisione sotto il profilo di cui all'art. 630 c.p.p., lett. c), ritenendo che la prova nuova - consistente nel giudicato della Corte di Appello di Catania, che aveva accertato la assoluta inaffidabilità del dichiarante P. il quale era riuscito ad intrufolarsi negli uffici provinciali spacciandosi per intermediario e procacciatore di appalti pubblici, ma, deluso nelle sue aspettative dal M., aveva poi coltivato un piano vendicativo nei confronti del M., sfociato nella chiamata in correità di quest'ultimo in relazione a comuni progetti di corrutela, smentiti però dalla mancata assegnazione di incarichi da parte del M. al P. - fosse idonea ad inficiare l'accusa posta a fondamento della sentenza di condanna per diffamazione poichè era rimasto altresì accertato che P., deluso dal M., aveva cercato soluzioni di ripiego incontrando gli avversari politici del M., S. e C. (che avevano registrato segretamente i colloqui intrattenuti con P.), che gli avevano fatto credere, senza che ciò fosse vero, di averlo denunciato, al solo fine di intimorirlo e di spingerlo alla denuncia nei confronti del M.. Da tali elementi la Corte di Appello di Reggio Calabria ha desunto che il M. non diceva il falso, o comunque era legittimamente convinto di non dirlo, durante la conferenza stampa, dal momento che la circostanza che le accuse provenissero dal P. e fossero state registrate dai suoi avversari politici C. e S., nel corso di reiterati incontri, potevano indurlo a ritenere che effettivamente essi fossero partecipi di un complotto ordito ai suoi danni per motivi di rivalità politica e non poteva neppure ritenersi che i toni usati dal M. esorbitassero dai limiti della continenza poichè nell'intervista aveva usato un linguaggio corretto e le sue accuse erano inserite, in modo pertinente, in un contesto teso a dimostrare la ingiustizia della sua detenzione carceraria che egli riteneva, a ragione, come emerso successivamente, conseguenza di accuse false; il che imponeva di ritenere insussistente, alla luce degli elementi di novità apportati dalla sentenza della Corte di Appello di Catania, l'elemento oggettivo del reato di diffamazione aggravata a carico del M..
Contro la sentenza hanno presentato ricorso in data 4 aprile 2009 S. B. personalmente ed in data 6 aprile 2009 i suoi difensori nominati procuratori speciali, questi ultimi anche in ordine alla statuizioni civili derivanti dalla sentenza impugnata, chiedendo l'annullamento senza rinvio della detta sentenza e lamentando con due separati motivi:
- violazione dell'art. 631 c.p.p. e art. 630 c.p.p., lett. c):
erroneamente era stata ritenuta ammissibile la istanza di revisione basata sulla sentenza della Corte di Appello di Catania, valutata idonea a contrastare l'accusa, trattandosi al contrario di sentenza irrilevante ai fini di un proscioglimento del M. per il reato di diffamazione, poichè, anche se il P. era stato ritenuto in altra sede individuo non affidabile così da comportare la assoluzione del M. dai reati di associazione e di corruzione che si fondavano, per gran parte, su quelle accuse, ciò non era in grado di confutare la condanna del M. per il reato di diffamazione e non lo sarebbe stata neppure se avesse accertato la sussistenza di un vero e proprio complotto ai danni del M., poichè quest'ultimo era stato condannato per avere attribuito allo S. fatti e qualità disdicevoli (fra l'altro definendo lo S. unitamente ad altri, nel corso della conferenza stampa, "compagni di merenda", facente parte di una "brigata", coautore di un "patto leonino" a suo danno) che non avevano alcun rapporto con la inattendibilità del P., così superando il limite della continenza, il cui rispetto era sempre richiesto affinchè si potesse invocare la scriminante di cui all'art. 51 c.p.;
- inosservanza od erronea applicazione degli artt. 595 e 51 c.p., art. 21 Cost., nonchè manifesta illogicità della motivazione della sentenza: erroneamente era stata ritenuta sussistente la esimente dell'esercizio di un diritto lesivo della altrui reputazione in assenza dei presupposti individuati dalla giurisprudenza consolidata di legittimità ed in particolare in violazione dei principi della verità della notizia e del rigoroso controllo della attendibilità della fonte e della continenza, consistente nella correttezza della esposizione dei fatti in modo che siano vietate gratuite aggressioni dell'altrui reputazione; la verità era infatti cosa diversa dalla verosimiglianza dei fatti narrati ed era quella che risultava al momento in cui la notizia veniva diffusa (quando cioè il M. non aveva alcuna prova dell'assunto complotto e si trattava di soggettive supposizioni che andavano a ledere la reputazione dei suoi avversari politici) e non quella accertata successivamente e nella specie non accertata neppure successivamente poichè, se P. era inaffidabile, lo era su tutto e non soltanto quando accusava M.;
il limite della continenza non era stato rispettato poichè le dichiarazioni rese alla stampa e da questa riportate virgolettate (compagni di merende ed altro) avevano una univoca valenza diffamatoria e risultavano eccessive ed aggressive dell'interesse morale della persona, trascendendo in attacchi personali diretti a colpire su un piano individuale la sfera morale del soggetto criticato, sfera tutelata penalmente.
Con comunicazione pervenuta il 14.9.2008 S.B. personalmente ha rilevato di non avere ricevuto la comunicazione della fissazione dell'odierna udienza e che per sua volontà i difensori non sarebbero stati presenti in udienza.
All'odierna udienza si è presentato il solo Procuratore Generale presso questa Corte che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Il rilievo in ordine alla mancata notificazione della fissazione dell'odierna udienza allo S. personalmente è inconferente poichè, a norma del combinato disposto di cui all'art. 610 c.p., comma 5 e art. 613 c.p.p., commi 2 e 4, che riguardano specificamente il giudizio di Cassazione, la parte personalmente ha diritto all'avviso solo se non assistita dal difensore di fiducia mentre nella specie la parte - comunque a conoscenza della precisa data dell'udienza indicata nella nota fatta pervenire dalla stessa in data 14.9.2009 - era rappresentata ed assistita da ben due difensori, Avvocato Salvatore Grande e Avvocato Gaetano Sano, entrambi del foro di Siracusa, nominati suoi difensori e procuratori speciali con mandato professionale e procura speciale in calce al ricorso depositato il 6 aprile 2009, che hanno ricevuto la notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza.
Il ricorso, sottoscritto dai difensori dello S. e depositato il 6 aprile 2006, al contrario di quello inizialmente presentato dalla parte personalmente, è ammissibile poichè contiene il riferimento agli effetti civili che vuole conseguire e proviene da avvocati iscritti all'albo speciale presso la Corte di Cassazione (v. Cass. n. 25525 del 2008, rv. 240646; Cass. n. 5070 del 2006 rv. 233273).
Lo stesso è peraltro infondato e deve essere come tale rigettato.
La verità dei fatti affermati dal M. nell'intervista con riguardo alla tesi del complotto ordito ai suoi danni dai suoi avversari politici, fra cui S., è stata ritenuta accertata dalla sentenza impugnata, con giudizio di fatto incensurabile in sede di legittimità, sulla base del giudicato penale della Corte di Appello di Catania dell'11.4.2007 che aveva assolto S. per totale insussistenza del fatto dai reati di associazione per delinquere e corruzione scaturiti dalle dichiarazioni del collaboratore P., che erano state registrate dallo S. al fine di costituire la prova a carico del suo antagonista M. il quale era stato sottoposto a misura cautelare in base a quelle registrazioni.
Si trattava di una prova sicuramente nuova in quanto integrata dai nuovi accertamenti svolti nel processo per associazione per delinquere e corruzione a carico dello S., che avevano portato alla sua assoluzione definitiva, non solo in termini di nuove valutazione, ma anche di nuovi fatti quali l'accertamento del piano vendicativo nei confronti del M. ordito dal P. ed agevolato dagli avversari politici del M. ( S. e C.) che avevano fatto credere a P., senza che ciò fosse vero, di averlo denunciato al solo fine di spingerlo alla denuncia contro il M..
La circostanza che, durante la conferenza stampa, unitamente alla esposizione della tesi del complotto (chiaramente emersa una volta che il M. era stato scarcerato, anche se accertata con sentenza definitiva anni dopo e di cui il M. poteva quindi parlare in quel momento in termini di certezza soggettiva, poi però diventata oggettiva e quindi "vera" in sede di accertamento giudiziale definitivo), il M. avesse aggiunto delle espressioni "pesanti" nei confronti de suoi accusatori (quali "compagni di merenda", "brigata" ecc.) non appare idoneo al superamento del limite della "continenza" (costituente, unitamente ai principi della pertinenza e della verità, le condizioni per l'esercizio legittimo dei diritti di critica e di cronaca) poichè il diritto di critica presenta una sua necessaria elasticità e non è necessariamente escluso dall'uso di un epiteto infamante, dovendo la valutazione del giudice di merito soppesare se il ricorso ad aggettivi o frasi particolarmente aspri sia o meno funzionale alla eventuale assoluta gravità oggettiva della situazione rappresentata (v, Cass. sez. 5 n. 11950 del 2005, rv. 231711); come nel caso in esame in cui non appare manifestamente illogica la valutazione del giudice di merito in ordine alla pertinenza delle espressioni adottate nel momento in cui il M. era stato appena scarcerato dopo avere subito un periodo di ingiusta detenzione e si trovava quindi in uno stato di agitazione che giustificava quelle espressioni sicuramente "pesanti", ma che non costituivano attacchi personali o gratuiti alla sfera morale dei soggetti, svincolati dalla situazione rappresentata, in quanto invece specificamente funzionali ad illustrare la tesi del complotto che presupponeva più soggetti (compagni o brigata) intenti ad attività illecite contro l'avversario politico.
Consegue al rigetto del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali (art. 616 c.p.p.).

P.Q.M.
LA CORTE SEZIONE PRIMA PENALE Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali


mercoledì 6 luglio 2011

ingiuria della suocera

CASSAZIONE PENALE, Sezione V, Sentenza n. 35874 del 16 settembre 2009
(ingiuria della suocera)

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con sentenza in data 11 dicembre 2008 il Tribunale di Roma in composizione monocratica, confermando la decisione assunta dal locale giudice di pace, ha riconosciuto D.B.L. responsabile dei reati di ingiuria e lesione volontaria in danno della moglie C.F.V.L.; ha quindi tenuto ferma la sua condanna alla pena di legge e al risarcimento dei danni in favore della parte civile.
Secondo l'ipotesi accusatoria, recepita dal giudice di merito, il D. B. aveva pronunciato le espressioni "bocchinara, puttana, stronza", ritenute offensive per la C. anche se riferite alla di lei madre; aveva poi colpito la persona offesa con una testata alla bocca.
Ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, per il tramite del difensore, affidandolo a tre motivi.
Col primo motivo il ricorrente denuncia errata applicazione dell'art. 120 c.p., per essersi ritenuta la C. legittimata a querelarsi sebbene le parole offensive fossero state rivolte alla madre della persona offesa, non presente al fatto.
Col secondo motivo lamenta la mancata applicazione dell'esimente della provocazione.
Col terzo motivo denuncia errata valutazione delle risultanze probatorie, con specifico riferimento alla deposizione del teste D.B.J., figlio delle parti.
In atti vi è una memoria della parte civile, con cui si contrastano le argomentazioni del ricorrente.
Il ricorso è inammissibile, per le ragioni di seguito esposte.
Manifestamente infondato è il primo motivo. La legittimazione della C. a presentare querela nei confronti del D.B. è derivata dalla sua qualità di persona offesa dal reato. Ed invero, per quanto gli epiteti e le volgari espressioni di disprezzo pronunciate dall'imputato nel rivolgersi alla C. si riferissero ad altro soggetto, e cioè alla madre di costei, non vi è dubbio che ne sia derivata una lesione del decoro della stessa interlocutrice: il che inevitabilmente accade quando sussiste uno stretto legame parentale fra la persona alla quale le espressioni offensive sono comunicate e quella destinataria delle offese, traducendosi tale condotta in una mancanza, nei confronti del percettore di tali espressioni, del rispetto che, quale componente della dignità umana, è dovuto a ciascuno dei consociati.
L'inammissibilità del secondo motivo discende dal disposto dell'art. 606 c.p.p., comma 3, in quanto la denunciata violazione dell'art. 599 c.p., comma 2 non era stata dedotta con i motivi di appello.
Il terzo motivo esula dal novero di quelli consentiti nel giudizio di cassazione.
Infatti le censure con esso elevate, dietro l'apparente denuncia di vizi della motivazione, si traducono nella sollecitazione di un riesame del merito - non consentito in sede di legittimità - attraverso la rinnovata valutazione degli elementi probatori acquisiti.
La Corte territoriale ha dato pienamente conto delle ragioni che l'hanno indotta a prestar fede alla versione dei fatti fornita dalla C.; a tal fine ha considerato che la veridicità della sua narrazione ha trovato conferma non soltanto nella prova documentale costituita dalla certificazione medica, ma anche nel fatto stesso che la persona offesa si sia immediatamente recata dai carabinieri per denunciare il fatto; e la stessa deposizione testimoniale del figlio Jacopo, nella quale quel giudice ha pur colto un tentativo di mettere in dubbio la volontarietà della lesione per non colpevolizzare il padre, ha tuttavia confermato a suo avviso l'obbiettività del gesto violento compiuto dal D.B., rendendo vieppiù credibile l'assunto della persona offesa, che già altre volte era stata colpita dal marito (ancora per ammissione del figlio).
Della linea argomentativa così sviluppata il ricorrente non segnala alcuna caduta di consequenzialità, che emerga ictu oculi dal testo stesso del provvedimento; mentre il suo tentativo di accreditare una diversa lettura delle deposizioni testimoniali si risolve nella prospettazione del fatto storico alternativa a quella fatta motivatamente propria dal giudice di merito: il che non può trovare spazio nel giudizio di cassazione.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso conseguono le statuizioni di cui all'art. 616 c.p.p..
Spetta alla parte civile, che è comparsa in udienza e ha presentato le conclusioni scritte, la rifusione delle spese di difesa sostenute nel presente giudizio di legittimità; la relativa liquidazione è effettuata in Euro 2.200,00, comprensivi di onorari, da maggiorarsi in ragione degli accessori di legge.

P.Q.M.
la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel presente grado di giudizio, che si liquidano in complessivi Euro 2.200,00, comprensivi di onorari, oltre accessori come per legge.

ingiuria e minaccia e rapporti con lo stato di provocazione

CASSAZIONE PENALE, Sezione IV, Sentenza n. 34247 del 4 settembre 2009
(ingiuria e minaccia e rapporti con lo stato di provocazione)

IN FATTO
Con sentenza del 24.11.2008 il Giudice di Pace di Acri ha assolto C.E. dall'addebito di minacce in pregiudizio di M.M. ("... ti squarto") perchè il fatto non sussiste, con la formula dell'art. 530 cpv. cod. pen. e dall'accusa di ingiurie in danno della predetta M. ("brutta puttana") per avere agito in istato di provocazione ex art. 599 c.p., comma 2.
Ricorre il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza deducendo - l'inosservanza della legge penale e processuale ed il vizio di motivazione nel giudizio di inaffidabilità della voce della persona offesa, rapportato a quanto risultante dalla querela e quanto riferito dalla stessa, smentito da accertamenti; trascurando le dichiarazioni di altri testimoni, che confermarono l'episodio narrato dalla querelante ovvero richiamando circostanze non risultanti dagli atti; omettendo di motivare sulle ragioni di minor credibilità della testimone della minorenne C.E. V.; palesando in tal modo un atteggiamento di pregiudiziale avversione alla tesi di accusa, ecc; - la violazione della legge penale per avere ravvisato nel comportamento della M., che aveva "rubato il marito della propria figlia" una situazione descritta dall'art. 599 c.p., comma 2, ad esimente delle ingiurie.

IN DIRITTO
Il ricorso non è fondato.
Il primo motivo del ricorrente, dalla prosa talora oscura, è inammissibile perchè grandemente versato in fatto: la valutazione giudiziale delle risultanze probatorie è accompagnata da giustificazione sostanzialmente adeguata. Trattasi di vicenda dalle dimensioni modeste, animata da risalenti rancori, in cui l'improprio richiamo probatorio alle risultanze portate dalla querela (ed a fatti che sono estranei al portato probatorio versato al dibattimento) viene superato dalle puntuali notazioni sulla dubbia attendibilità della voce della persona offesa, attese le tensioni non sopite tra i protagonisti. Non è consentito al giudice di legittimità scendere ulteriormente nel vaglio della considerazione espressa sui risultati istruttori dal giudice di merito, quando lo sviluppo argomentativo fornisce sufficiente traccia del percorso logico seguito a sostegno del convincimento giudiziale.
Del pari infondato è il secondo mezzo.
Certamente la "sottrazione", resa con il consenso delle parti, del coniuge non può qualificarsi connotata da illiceità penale, essendo stato abrogato il reato di adulterio. Ma, del pari, è certo che al momento della separazione dei coniugi è possibile ravvisare profili di "addebito" e, dunque, suscettibili di valutazione critica: il rispetto dell'accordo sottostante al matrimonio e della dignità di ogni componente del nucleo familiare assume il connotato di un preciso diritto a cui corrisponde responsabilità civile in capo al responsabile della relativa lesione. Come tale la condotta di chi cagiona la rottura del vincolo coniugale, così come la stessa infedeltà del coniuge, possono, a buon titolo, ritenersi presupposto della speciale esimente dell'art. 599 c.p. Esimente applicabile anche nel caso in cui la reazione dell'agente sia stata diretta contro persona diversa dal provocatore, quando quest'ultima sia legato all'offeso da rapporti tali da giustificare, alla stregua delle comuni regole di esperienza, lo stato d'ira e quindi la reazione offensiva.
Pertanto la decisione rispetta la corretta lettura normativa ed il ricorso risulta infondato e viene rigettato.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

martedì 5 luglio 2011

ESTORSIONE

Cassazione, Sez. II, 20 aprile 2010, n. 15111
(Pres. Casucci – Rel. Bronzini)
 Svolgimento del processo

Con sentenza del 26.2.2008 la Corte di appello di Napoli confermava la sentenza emessa dal GUP del Tribunale di S. Maria C. V. in data 4.6.2006 di condanna del ricorrente per il reato di estorsione alla pena di anni due, mesi due di reclusione ed euro 300,00 di multa.
L’imputato avrebbe costretto la moglie alla quale prima in sede di separazione poi in sede di divorzio era stata affidata l’abitazione coniugale di proprietà dei familiari del ricorrente con ingiurie e minacce di morte ad abbandonare la detta abitazione e trasferirsi altrove.
Ricorre l’imputato che con un primo motivo allega che manca l’elemento dell’ingiusto profitto perché l’abitazione non era di proprietà della parte offesa e questa aveva già manifestato l’intenzione di trasferirsi altrove.
Inoltre le dichiarazioni della donna erano prive di sostanziali conferme.
Infine, al più, era ravvisabile il reato di cui all’art. 393 c.p. in quanto il ricorrente poteva adire il giudice per ottenere l’immobile che era di sua proprietà.

Motivi della decisione

Il ricorso, stante la sua manifesta infondatezza, va dichiarato inammissibile.
Circa il primo motivo i giudici di merito hanno accertato che in seguito alle minacce, insulti ed atti di violenza posti in essere dall’imputato la moglie fu indotta a lasciare l’abitazione che le era stata affidata sia in sede di separazione che di divorzio. Tali episodi emergono dalle precise ed univoche dichiarazioni erse dalla p.o. e il giudice di primo grado ha indicato i riscontri derivanti dalle dichiarazioni rese dai testi I., G. S., S. A., M. G..
Il motivo è assolutamente generico perché ignora le dette dichiarazioni e non sottopone neppure a specifiche censure le dichiarazioni della moglie. L’ipotesi che la stessa abbia volontariamente abbandonato l’appartamento perché desiderava spostarsi altrove è smentita dalle sentenze di merito e non vengono indicati gli elementi dai quali questa ipotesi sarebbe confermata. Pur essendo l’appartamento di proprietà dei familiari del ricorrente l’ingiusto profitto è evidente, posto che l’imputato, essendo stato l’immobile affidato alla moglie sia in sede di separazione che di divorzio, non ne aveva la disponibilità.
Quanto all’ultima doglianza circa l’applicabilità dell’art. 393 c.p., il motivo è generico. Certamente l’imputato poteva in astratto adire il giudice ma facendo valere ragioni di diritto che non vengono nemmeno indicate.
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di mille euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di euro mille alla Cassa delle ammende.

NON SI CONFIGURA IL PECULATO SE L'USO PRIVATO DEL CELLULARE DI SERVIZIO È MODESTO

Cassazione, Sez. VI, 25 novembre 2010, n. 41709
    (Pres. De Roberto – Rel. Colla)


Fatto e diritto
Con la sentenza in epigrafe il G.u.p. del Tribunale di Verbania ha disposto non luogo a procedere nei confronti di M. E. in ordine ai reati di peculato (capo a), contestatogli in alternativa al reato di abuso di ufficio (capo b), per avere, quale dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune di Omissis, e pertanto pubblico ufficiale, utilizzato il telefono cellulare assegnatogli per ragioni di ufficio per contatti con privati (276 messaggi SMS e 625 conversazioni) per un totale di ore 25,52,03 di impegno della utenza e un costo di euro 75,49. Uguale statuizione ha emesso nei confronti dell’E. in relazione al reato ex art. 323 sub c) contestatogli per avere utilizzato il computer dell’ufficio collegato con la rete Internet per ragioni del tutto personali.
Considerava il G.u.p. che, in ragione di una reiterazione di condotte che comportavano modesti costi, doveva concludersi per “l’assenza di atti appropriativi di valore economico sufficiente per la configurabilità del delitto di peculato”. Rilevava quindi che neppure era configurabile il reato di abuso di ufficio in considerazione della mancanza dell’elemento costitutivo del reato consistente nell’ingiusto vantaggio patrimoniale “rappresentato da un effettivo e concreto incremento economico del patrimonio del beneficiato quale conseguenza della condotta abusiva”. Doveva poi escludersi la sussistenza del reato di abuso di ufficio in relazione all’utilizzo del computer dell’ufficio per usi personali perché il Comune di Omissis aveva con Telecom s.p.a. un abbonamento a costo fisso per la navigazione in Internet, mancando quindi, anche per tale comportamento, un ingiusto vantaggio patrimoniale al pubblico ufficiale, nemmeno ipotizzabile sotto il profilo di risparmio di spesa.
Avverso la sentenza propongono ricorso per cassazione il Procuratore generale e il Procuratore della Repubblica. Entrambi lamentano inosservanza o erronea applicazione di legge. Il Procuratore della Repubblica censura la sentenza anche per mancanza e contraddittorietà della motivazione. Quest’ultimo, in particolare, insiste per la configurabilità del reato di peculato sub a). Sottolinea la non uniformità della giurisprudenza di questa corte di cassazione in ordine a vicende analoghe e soprattutto la differenza di situazioni di fatto prese in considerazione da detta giurisprudenza. Ragione per la quale si profilerebbe come opportuna la decisione del giudice del dibattimento, sussistendo comunque elementi idonei per sostenere la pubblica accusa. Entrambi i ricorrenti deducono, sotto il profilo del reato di abuso di ufficio, come appaia evidente l’ingiusto vantaggio patrimoniale che l’indagato si è procurato.
L’indagato ha depositato memoria in data 15 ottobre 2010 con la quale ha chiesto il rigetto dei ricorsi.
I ricorsi sono inammissibili.
Per quanto attiene alla contestazione dei reati sub a) e b), se è vero che in punto di reato di peculato in caso di utilizzo da parte del pubblico ufficiale dei telefoni di cui ha la disponibilità per ragioni di ufficio per comunicazioni di carattere privato la giurisprudenza di questa corte di cassazione ha giudicato in modo differente, è anche vero che le diversità sono dovute essenzialmente alla diversa misura di tale utilizzazioni, laddove tutte le sentenze pronunciate sono concordi nel ritenere che danni al patrimonio della pubblica amministrazione di scarsa entità finiscono per essere irrilevanti per rivelarsi le condotte inoffensive del bene giuridico tutelato. Nel caso, il G.u.p. ha giudicato su una vicenda in cui il danno arrecato era di circa 75 euro in un arco temporale di poco più di due anni per contatti di breve durata con un numero ristretto di persone. Tale valutazione non appare irragionevole al Collegio decidente, avuti riguardo al raffrontato con i casi che si sono presentati ali esame della Corte di cassazione. I ricorsi appaiono quindi inammissibili per contenere censure non consentite nel giudizio di cassazione in quanto attinenti ad apprezzamenti e valutazioni dei dati di fatto riservati al giudice di merito, sottratti alla cognizione del giudice di legittimità siccome sorretti, nella specie, da una motivazione congrua e immune da censure di ordine logico, con la quale il G.u.p. ha spiegato adeguatamente le ragioni per le quali non ha ritenuto di sottoporre al vaglio del giudice del dibattimento una vicenda caratterizzata dalla raccolta di elementi insufficienti o contraddittori per sostenere l’accusa. Ragioni che hanno altresì condotto il giudicante a ritenere la insussistenza di un effettivo e concreto incremento economico del beneficiario idoneo a configurare il requisito dell’ingiusto vantaggio patrimoniale con riferimento al reato di abuso di ufficio.
È anche corretta la decisione assunta in ordine al capo c), essendo emerso che il Comune di Omissis aveva contratto con Telecom un abbonamento a costo fisso per l’accesso in Internet con la conseguenza che nessun danno è stato cagionato alla pubblica amministrazione. Neanche in ordine a tale fattispecie è ravvisabile un concreto incremento patrimoniale da parte dell’E. e quindi un vantaggio ingiusto. Neppure può ravvisarsi il reato di abuso di ufficio sotto il profilo del consumo di energie derivanti dall’utilizzo del computer, mancando anche in tal caso, per quest’ultima causale, un apprezzabile nocumento nei confronti della stessa amministrazione.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi.



domenica 3 luglio 2011

CONTATTI

STUDIO LEGALE
Penale -Tributario - Civile - Minorile
Avv. Maria Sabina Lembo
portale giuridico: www.giuristiediritto.it

sabato 2 luglio 2011

CYBERSTALKING

Atti persecutori  o Stalking  ART 612 bis c.p.
Integra l'elemento materiale del delitto di atti persecutori il reiterato invio alla persona offesa di "sms" e di messaggi di posta elettronica o postati sui cosiddetti "social network" (ad esempio "facebook"), nonché la divulgazione attraverso questi ultimi di filmati ritraenti rapporti sessuali intrattenuti dall'autore del reato con la medesima.
Cass. pen., sez. VI, 30 agosto 2010, n. 32404 ( 16 luglio 2010)

venerdì 1 luglio 2011

SCHEDA INFORMATIVA

SCHEDA INFORMATIVA

L' avv . Maria Sabina Lembo esercita nel foro di Potenza e su tutto il territorio nazionale la libera professione forense.
Vive in Basilicata in un piccolo paese della provincia di Potenza.
La sua passione per il diritto penale e le discipline ad esso connesse, lo studio approfondito delle discipline processual-penalistiche e l’aggiornamento giurisprudenziale, incessante, mirato e continuo, hanno incentivato la stesura di tracce papabili e di svolgimenti di pareri penali motivati, al fine di trasmettere un buon metodo di lavoro da un punto di vista logico-giuridico e da un punto di vista linguistico, per affrontare con maggiore sicurezza la prova scritta e per padroneggiare qualsiasi problematica giuridica, durante lo svolgimento della professione forense.
Le video-esercitazioni che seguono vertono sugli argomenti di maggiore attualità e mettono a fuoco le problematiche maggiormente dibattute in dottrina e giurisprudenza, con un taglio spiccatamente e volutamente pratico, pur senza trascurare gli aspetti teorici.
A conclusione di ogni parere è riportata la sentenza di legittimità che lo ha ispirato.
Il lavoro si concentra, soprattutto, sui singoli reati (c.d. parte speciale del diritto penale) con casi, che sviscerano aspetti sostanziali e processuali, risolvendo tutte le problematiche prospettate dalla traccia.
Il metodo proposto governa tutti i pareri pro-veritate proposti ed elaborati e conduce gradualmente il candidato nel lavoro critico e personale di organizzazione e di elaborazione di un parere.
Da un punto di vista linguistico si opta per uno stile semplice, senza fronzoli ed elucubrazioni mentali.
Lo sforzo dell’autrice è consistito, materialmente, nel simulare la prova scritta, utilizzando esclusivamente il codice commentato con la giurisprudenza, suggerendo come sia possibile, grazie ad un buon metodo ed anche conoscendo poco un istituto giuridico, essere in grado di focalizzarne i tratti salienti e di risolvere le problematiche, con un utilizzo sapiente ed accurato dei prevalenti e recenti orientamenti giurisprudenziali di legittimità.
In questo modo sarà possibile migliorare la preparazione generale, la capacità di ragionare e la tecnica espositiva del candidato-praticante, aiutandolo a redigere prove scritte dal sicuro esito positivo secondo i precisi criteri di valutazione attualmente adottati dalle commissioni d’esame (chiarezza, logicità e rigore metodologico, capacità di individuare la soluzione specifica, conoscenza degli istituti trattati, grammatica, sintassi e padronanza della lingua, tecnica espositiva).

PARERE PENALE. FALSA TESTIMONIANZA

PARERE
FALSA TESTIMONIANZA E CAUSA DI NON PUNIBILITA’
a cura dell'avv. MARIA SABINA LEMBO

Nel corso di un procedimento penale, Tizio, fratello di Caio, tace di averlo visto spacciare sostanze stupefacenti nella villa del paese.
Informato della facoltà di astensione concessa ai  congiunti non se ne avvale.
Il candidato dica se si può configurare il delitto di falsa testimonianza e rediga parere motivato.


BREVI CENNI TEORICI
        Nell'ambito del generico interesse al corretto funzionamento dell'attività giudiziaria, l’art 372 c.p. tutela lo specifico interesse alla veridicità e completezza della testimonianza come mezzo di prova, in quanto deposizioni testimoniali false o reticenti possono fuorviare la decisione del giudice.
         Titolare esclusivo dell’interesse protetto è lo Stato, mentre si esclude che possa rivestire la qualifica di persona offesa il privato che, a causa della falsa testimonianza, abbia subito danni rilevanti e risarcibili sul piano civilistico.
         Secondo un diffuso orientamento, la falsa testimonianza costituisce un reato di pericolo: ai fini dell'esistenza del reato non si richiede che la testimonianza falsa abbia effettivamente fuorviato il giudice, cioè abbia inciso sul contenuto della decisione, mentre è sufficiente che mendacio o reticenza abbiano potenziale idoneità a trarlo in errore.
         Trattasi di reato proprio, poiché soggetto attivo può essere solo chi depone come testimone innanzi all'Autorità giudiziaria ove per testimone si intende quel soggetto diverso dalle parti o dall’imputato, che rende al giudice una dichiarazione di scienza intorno a fatti rilevanti per la definizione della causa.
            La norma prevede la realizzazione del reato attraverso una forma commissiva (l'affermazione del falso o la negazione del vero) o una forma omissiva (la reticenza cioè il tacere totalmente o parzialmente quanto si sa).
          Per quanto riguarda l’elemento materiale del delitto de quo, per la determinazione del concetto di falsità della testimonianza - sia nel suo aspetto positivo, come affermazione del falso, che nel suo aspetto negativo come negazione del vero - appare ormai comunemente accolta in dottrina la teoria del c.d. vero soggettivo: la falsità della testimonianza dipende non già dal contrasto tra il fatto rappresentato dal soggetto e il fatto realmente accaduto, ma dal contrasto tra la rappresentazione che il soggetto faccia della sua percezione di un dato fatto e la diversa percezione che in realtà il soggetto abbia avuto di quel fatto o addirittura la radicale mancanza di percezione in ordine a quel fatto.
         Ciò sulla base delle seguenti considerazioni: l'obbligo che la legge prescrive al testimone è quello di riferire esattamente il risultato delle sue percezioni; l'art. 372 c.p. fa esplicito riferimento a ciò che il testimone sa intorno ai fatti sui quali è interrogato e non già alla verità obiettiva; se si adottasse un criterio oggettivo per accertare la falsità si legittimerebbe la creazione di testimonianze soggettivamente false su fatti realmente accaduti.
            La concezione della falsità della testimonianza come soggettiva alterazione della realtà percepita è fatta propria anche dalla giurisprudenza, la quale espressamente riconosce che l'elemento materiale del reato non consiste nella difformità tra le dichiarazioni del testimone e la realtà vera e propria, ma nella difformità tra quanto egli depone e quanto egli conosce dei fatti.
         Il reato si consuma quando è conclusa la deposizione del testimone e quindi con l'esaurimento delle domande che allo stesso vengono rivolte, a nulla rilevando che quest’ultima, in concreto, possa o meno essere utilizzata dal giudice o che la prova sul fatto possa essere acquisita anche aliunde.
         Il reato è punito a titolo di dolo, consistente nella coscienza e volontà da parte del testimone, di affermare il falso, di negare il vero o di tacere in tutto o in parte ciò che sa in ordine ai fatti sui quali è interrogato: è sufficiente il dolo generico.
         E’ irrilevante il fine specifico avuto di mira dal falso teste.
         Il dolo è escluso dall’errore di fatto e dalla dimenticanza.
         Al reato si applicano le speciali cause di non punibilità previste dall'art. 384 co. 1 e 2.
         La competenza appartiene al Tribunale in composizione monocratica e la procedibilità è di ufficio.

MOTIVAZIONE
        Nel caso in esame, occorre accertare se Tizio abbia commesso il delitto di falsa testimonianza o se piuttosto possa applicarsi la causa di non punibilità ex art 384 c.p.
         Nello specifico si discute se la causa di esclusione della punibilità per il delitto di falsa testimonianza, prevista per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare se stesso o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà e nell'onore, operi anche nell'ipotesi in cui il testimone abbia deposto il falso pur essendo stato avvertito dalla facoltà di astenersi.
         La causa di non punibilità ex art 384 c.p. ricorre quando uno dei reati ivi richiamati (tra cui la falsa testimonianza) è stato commesso in stato di necessità correlato al bisogno di conservazione della libertà o dell’onore, mentre non sussiste ove il danno temuto concerna l’incolumità fisica dell’autore di uno dei fatti criminosi previsti al quale, è eventualmente applicabile la disciplina di cui all’art 54 c.p.
         La situazione di necessità prevista dall’art 384 c.p. non è costituita da un evento di pericolo, come nella legittima difesa o nello stato di necessità, ma da un evento di danno.
         In particolare il danno deve essere grave ed inevitabile nel senso che  non può essere evitato senza che sia commesso il fatto costitutivo del delitto.
         Deve trattarsi di un nocumento non ancora verificatosi, perché non si può salvare se stessi o altri da un danno già avvenuto.
         Il pericolo, che si verifichi il danno, deve essere attuale e concreto onde provare l’esistenza di tale causa di non punibilità.
         Su tale materia esiste un notevole contrasto nella giurisprudenza di legittimità.
         Per lungo tempo si è ritenuto che, stante la natura obbligatoria della deposizione quale presupposto dell'operatività della esimente dell'art. 384 c.p., detta esimente è applicabile soltanto se la situazione di pericolo non sia stata "volontariamente causata" dall'autore del reato.
         La situazione descritta dall'art. 384 c.p., comma 1, costituisce una ipotesi speciale della causa di giustificazione dello stato di necessità (art. 54 c.p.), sicchè si configura pienamente la punibilità del prossimo congiunto che, ritualmente avvertito della facoltà di astenersi, scelga di deporre: non può invero "chiamarsi necessità quella cui un individuo volontariamente si espone, mentre era in sua facoltà astenersi".
         In questo contesto vanno segnatamente ricordate  Cass. Pen. sentenza n. 11755/2000  e n. 27614/2006 secondo cui la causa di esclusione della punibilità prevista per chi ha commesso il fatto al fine di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore non opera se il testimone, pur avvertito della facoltà di astenersi, abbia comunque deposto affermando il falso o negando il vero, atteso che la facoltà di astenersi concede al potenziale teste una scelta, facendo venire meno l'inevitabilità del nocumento derivante da una testimonianza veritiera, e perciò uno dei presupposti presi in considerazione dal citato art. 384 cod. pen. ai fini della esclusione della punibilità.
La causa di non punibilità prevista dall'art. 384 cod.pen., non è applicabile quando il prossimo congiunto dell'imputato abbia operato la scelta di non avvalersi della facoltà di astenersi dal testimoniare.
         L'orientamento giurisprudenziale che si era così consolidato è stato messo radicalmente in discussione dalla sentenza n. 44761/2001 seguita dalle sentenze n. 3397/2003 e n. 10655/2003 secondo cui la causa di non punibilità prevista dall'art. 384 c.p., è applicabile anche quando il prossimo congiunto dell'imputato abbia operato la scelta di non avvalersi della facoltà di astenersi dal testimoniare, in quanto la suddetta causa, che trova la sua giustificazione nell'istinto alla conservazione della propria libertà e del proprio onore (“nemo tenetur se detegere”) e nell'esigenza di tener conto agli stessi fini dei vincoli di solidarietà familiare, presuppone una situazione di necessità, nettamente distinta da quella prevista in via generale dall'art. 54 c.p.
         Ne consegue che l'obbligo legale di testimoniare o anche la libera scelta di farlo nell'ipotesi in cui non si eserciti, ove prevista, la facoltà di astenersi non incidono sull'operatività della suddetta esimente (nella specie è sta esclusa la punibilità del testimone che aveva deposto il falso dopo aver rinunciato alla facoltà di astenersi dal testimoniare, peraltro erroneamente attribuitagli dal giudice).
            A dirimere tale contrasto giurisprudenziale è intervenuta la Cassazione Penale, sez. Unite, n. 7208 del 14-02-2008, secondo la quale non integra il reato di falsa testimonianza la dichiarazione non veritiera resa da persona che non possa essere sentita come testimone o abbia facoltà di astenersi dal testimoniare, ma non ne sia stata avvertita, a nulla rilevando le finalità e i motivi che l'abbiano indotta a dichiarare il falso.
            La causa di esclusione della punibilità prevista per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore non opera nell'ipotesi in cui il testimone abbia deposto il falso pur essendo stato avvertito della facoltà di astenersi.

SOLUZIONE
        Aderendo al recente orientamento delle Sezioni Unite, si ritiene che Tizio dovrà rispondere del delitto di falsa testimonianza ex art 372 c.p.

GIURISPRUDENZA RISOLUTIVA:
Cassazione Penale, sez. Unite, n. 7208 del 14-02-2008

RITENUTO IN FATTO
Il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Rieti, con sentenza del 18 aprile 2005, in seguito a un giudizio abbreviato, ha assolto G.P. - ritenendo applicabile nei suoi confronti la causa di non punibilità prevista dall'art. 384 c.p., comma 1, - dal delitto di cui agli artt. 81, 372 c.p..
Ha, invero, reputato la deposizione del G. oggettivamente falsa, ma nondimeno non punibile, in quanto resa "al fine di salvare il fratello da una, altrimenti, inevitabile condanna", così aderendo all'orientamento giurisprudenziale favorevole alla configurabilità dell'esimente ex art. 384 c.p., anche nel caso di testimone non avvalsosi della facoltà di astensione.
Ricorre per cassazione il Procuratore della Repubblica rilevando che la sentenza impugnata, pur uniformandosi ad un recente orientamento della Sesta Sezione della Corte di cassazione, appare in contrasto con altre decisioni di questa Corte e con il testo e la ratio dell'art. 384 c.p., che contempla, come presupposto inderogabile della causa di non punibilità l'esistenza di un dovere di testimoniare e non è applicabile in assenza di tale dovere.
Resiste il difensore dell'imputato con articolata memoria, di adesione alla tesi accolta dal Gup reatino.
La Sesta sezione di questa Corte, assegnataria del ricorso "ratione materiae", ha denunciato un contrasto giurisprudenziale sulle condizioni di applicabilità della causa di non punibilità prevista dall'art. 384 c.p., in tema di reati di falsa testimonianza del teste - prossimo congiunto.
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'odierna pubblica udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Si discute dunque "se la causa di esclusione della punibilità per il delitto di falsa testimonianza, prevista per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare sè o un prossimo congiunto da una grave e invitabile nocumento nella libertà e nell'onore, operi anche nell'ipotesi in ad il testimone abbia deposto il falso pur essendo stato avvertito dalla facoltà di astenersi".
In relazione a tale questione esiste effettivamente un notevole contrasto nella giurisprudenza di legittimità.
Per lungo tempo si è ritenuto, senza oscillazioni degne di rilievo, che, stante la natura obbligatoria della deposizione quale presupposto dell'operatività della esimente dell'art. 384 c.p., detta esimente è applicabile soltanto se la situazione di pericolo non sia stata "volontariamente causata" dall'autore del reato. La situazione descritta dell'art. 384 c.p., comma 1, costituisce una ipotesi speciale della causa di giustificazione dello stato di necessità (art. 54 c.p.,), sicchè si configura pienamente la punibilità del prossimo congiunto che, ritualmente avvertito della facoltà di astenersi, scelga di deporre: non può invero "chiamarsi necessità quella cui un individuo volontariamente si espone, mentre era in sua facoltà astenersi".
In questo contesto vanno segnatamente ricordate, tra le prime pronunce, Sez. 3^, 30.06.1951, Donghi; Sez. 3^, 16.03.1954, Michellino; Sez. 3^. 03.06.1957, Lipari; per le successive, fra le tante, Sez. 1^, 18.02.1972, Marinerò; rv 121392; Sez. 6^, 02.05.1972, Golfi, rv. 122558; Sez. 6^, 05.041979, Caruso, rv 1455595; Sez. 6^, 25.10.1989, Milito, rv. 164367; e, da ultimo, Sez. 6^, 24.10.2000, Re, rv. 217385; Sez. 6^, 20.06.2006, Martinelli, rv.
235067.
L'orientamento giurisprudenziale che si era così consolidato, sottoposto peraltro, da subito, a forti critiche della dottrina prevalente, che ritiene applicabile la esimente in esame anche quando la testimonianza sia facoltativa, è stato messo radicalmente in discussione dalla Sez. 6^, penale del 04.10.2001, Mariotti, rv.
220326, sostanzialmente ripropositiva degli assunti dottrinali.
Tale decisione muove dalla premessa della conclamata autonomia della previsione dell'art. 384 c.p.,: si afferma infatti, in primo luogo, che "l'obbligo legale di testimoniare o anche la libera scelta di farlo nell'ipotesi in cui non si eserciti, ove prevista, la facoltà di astenersi, non incidono sulla operatività della esimente in questione; questa, che "ha una sua autonomia e trova la sua giustificazione nell'istinto alla conservazione della propria libertà e del proprio onore, e nell'esigenza di tenere conto, agli stessi fini, dei vincoli di solidarietà familiare ..., richiama solo genericamente lo stato di necessità, perchè identica è la situazione psicologica presa in considerazione, ma differisce nettamente dall'ipotesi tipica di cui all'art. 54 c.p., in quanto non presuppone che il pericolo non sia stato causato dall'agente, e si applica, quindi, anche quando è stato lo stesso agente a determinare la relativa situazione".
Di ciò sarebbe anzitutto prova l'assetto "letterale" della disposizione giacchè "la necessità di cui all'art. 384 c.p., comma 1, non si riferisce all'obbligo di rendere la testimonianza, bensì all'inevitabilità del nocumento che, senza di essa, si sarebbe verificato. Il pericolo del detto nocumento, infatti, si concretizza allorchè il soggetto sia obbligato comunque a deporre ... o rinuncia alla facoltà concessagli di astenersi dal deporre; non sussistono, in questi casi, in base al diritto positivo, ragioni per rifiutare l'applicabilità della scriminante in esame".
Ulteriore argomento è poi dato dal raffronto tra la previsione del dell'art. 384 c.p., comma 1 e 2, "la quale è circoscritta a situazioni connesse alla posizione soggettiva di chi fornisce informazioni, del testimone, del perito, del consulente tecnico o dell'interprete e prescinde dalla finalità ispiratrice della condotta da costoro tenuta", in particolare a nulla rilevando "che la condotta possa o non arrecare grave nocumento all'agente o a un suo congiunto".
Sicchè, in conclusione, "non può fondatamente sostenersi che la norma di cui dell'art. 384 c.p., comma 1 ha il suo fulcro nel dovere di testimonianza, per inferirne che non è applicabile a chi abbia deposto il falso dopo essere stato avvertito, a norma dell'art. 199 c.p.p., comma 2, della facoltà di astenersi dal rendere la testimonianza. Tale tesi non ha alcun aggancio nel diritto positivo, riduce irragionevolmente il campo di operatività della norma, non considera soprattutto che l'esimente in parola non è limitata alla falsa testimonianza, ma opera anche in relazione ad altri reati, quali la frode processuale o il favoreggiamento personale, per i quali, evidentemente, la "necessità" non può essere collegata in alcun modo alla violazione di un dovere".
Le suddette argomentazioni vengono, anche letteralmente, riportate da successive decisioni della Sesta Sezione (08.10.02, Miazza, rv 223521; 08.01.2003, Accardo, rv 223420; 15.01.03, Masciari, rv 224095), ove peraltro si aggiunge che "l'esercizio della facoltà di astensione non è, di per sè, rimedio sufficiente per allontanare la prospettiva del grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore incombente sul prossimo congiunto. Se il teste, in quanto prossimo congiunto dell'imputato, si astiene dal deporre, può determinare la condanna del congiunto (pregiudicandone, appunto, la libertà o l'onore), forse evitabile in forza di una testimonianza risolutivamente favorevole, anche se non conforme a verità"; e ulteriormente, si specifica che, "in base al comma 2, la punibilità della falsa testimonianza è, tra l'altro, esclusa se il fatto è commesso da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere testimonianza. Ne deriva che, se tale avvertimento è dato e la facoltà di astenersi non è esercitata, non residuerebbe alcuna concreta possibilità applicativa della causa di non punibilità di cui al comma 1. In altri termini, non si comprenderebbe perchè quest'ultima disposizione si riferisca all'eventualità di un prossimo congiunto che commetta falsa testimonianza, posto che il medesimo, secondo la tesi qui avversata, sarebbe scriminato, alla luce del comma 2, soltanto in caso di omesso avvertimento della facoltà di astenersi, mentre sarebbe sempre punibile in caso di scelta di non astenersi". 2. Le Sezioni Unite ritengono di riaffermare la soluzione negativa, offerta al quesito interpretativo in esame dal primo indirizzo giurisprudenziale, anche se necessitano di essere rivisitate e puntualizzate le ragioni d'ordine logico - giuridico che la giustificano, alla stregua dei rilievi prospettati a sostegno dell'orientamento di segno opposto.
2.1. Quest'ultimo coglie certamente nel segno quando afferma, concordemente con la dottrina (v. sentenza Mariotti), che l'art. 384 c.p., trova la sua giustificazione nell'istinto alla conservazione della propria libertà e del proprio onore (nemo tenetur se detegere) e nell'esigenza di tener conto, agli stessi fini, dei vincoli di solidarietà familiare.
Ma, a ben vedere, la stessa giustificazione fonda il disposto dell'art. 199 c.p.p., relativo alla facoltà di astensione dal rendere testimonianza in capo ai prossimi congiunti dell'imputato.
La ratio di tale facoltà, invero, è unanimemente ravvisata proprio nella tutela del sentimento familiare (latamente inteso) e nel riconoscimento del conflitto che può determinare, in colui che è chiamato a rendere testimonianza, tra il dovere di deporre e dire la verità, e il desiderio o la volontà di non danneggiare il prossimo congiunto (C. Cost., sent. n. 6 del 1977 e n. 179 del 1994; Cass. Sez. 1^, 29.03.1999, Pernia, rv 213464; Sez. 1^, 15.12.1998, Mocerino, rv 214756).
Deve dunque darsi atto della sussistenza di una strettissima connessione tra l'istituto, di natura sostanziale, dell'art. 384 c.p., e la prescrizione processuale contenuta nell'art. 199 c.p.p..
Ne discende che, ai fini di un corretto inquadramento del tema in questione, appare pregiudiziale prendere le mosse proprio dalla disciplina processuale, essendo noto, del resto, che non di rado il diritto penale sostanziale riveste una funzione strumentale rispetto a quello processuale.
E in questa ottica, va subito rilevato come, nel riconoscere prevalenti e quindi tutelare i richiamati motivi di ordine affettivo, il legislatore non ha stabilito un criterio assoluto - quale sarebbe stato, ad esempio, il divieto di testimoniare (quale era previsto, nel processo civile dal non più vigente art. 247) - ma ha accordato la facoltà di astenersi dal deporre solo se, ed in quanto, l'interessato reputi di non dovere, o non potere, superare il conflitto di cui si è detto.
Ora, la soluzione legislativa adottata, che già aveva trovato collocazione nel codice previgente all'art. 350 c.p., implica un chiaro effetto, di fondamentale importanza ai fini che ne occupano, peraltro già colto dal Giudice delle Leggi, vale a dire quello che ove il prossimo congiunto accetti di deporre, egli assume la qualità di teste al pari di qualsiasi soggetto, con tutti gli obblighi che a tale qualità l'art. 198 c.p.p., ricollega, essendo cessate, per scelta dello stesso interessato, come tiene a precisare la sentenza n. 174/94 cit., le ragioni che giustificavano la tutela della sua particolare posizione.
Tra detti obblighi, vi è, in primo luogo, quello di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte.
Così stando le cose, non è dato comprendere come la sua violazione non debba comportare, anche nel caso in esame, ineluttabilmente, l'applicazione della norma che punisce la falsa testimonianza.
Affermare il contrario, e cioè escludere la punibilità del prossimo congiunto che volutamente non si è astenuto dal testimoniare darebbe luogo ad una figura di testimone con facoltà di mentire incompatibile con il sistema processuale.
E' il caso di ricordare che il codice di procedura penale ha avuto cura di distinguere le figure dei vari dichiaranti, disciplinando le modalità di assunzione e il valore probatorio delle dichiarazioni, in una graduazione che va dalla testimonianza, alla c.d. testimonianza assistita dell'art. 197 bis c.p.p., all'esame di persona imputata in un procedimento connesso (art. 210 c.p.p.), e ha riconosciuto alla sola testimonianza il valore di prova piena, cioè non bisognosa di corroborazione. Sicchè la testimonianza resa dal prossimo congiunto avvisato e non astenuto, ben può essere assunta da sola quale fonte di prova, alla stessa stregua di quella del terzo estraneo o della persona offesa.
Sarebbe, pertanto, fuori del sistema una testimonianza dotata del suo valore probatorio tipico benchè resa da una persona che per la sua particolare e nota situazione processuale potrebbe impunemente dichiarare il falso.
Una interpretazione diversa finirebbe col costituire, come si è efficacemente osservato, "una sorta di grimaldello capace di scardinare l'obbligo di verità imposto dalla norma processuale", con il pericolo di una totale deresponsabilizzazione del dichiarante, a totale scapito dell'interesse alla corretta amministrazione della giustizia.
2.2. Non è perciò condivisibile, perchè non ha base testuale e diverge dai supporti sistematici teste ricordati, la tesi secondo cui l'obbligo legale di testimoniare o anche la libera scelta di farlo nell'ipotesi in cui non si eserciti, ove prevista, la facoltà di astenersi, non inciderebbe sulla esimente di cui all'art. 384 c.p..
Non vale osservare in contrario che la necessità di cui all'art. 384 c.p., comma 1, non si riferisce all'obbligo di rendere testimonianza, bensì all'inevitabilità del nocumento che senza di essa si sarebbe verificato, inevitabilità che la facoltà di astenersi non fa venir meno.
Ciò è vero, come pure esatta, sotto il profilo logico, è l'affermazione che l'avvertimento del giudice non annulla quel "tormentoso contrasto in cui il testimone si trova a dover dire la verità a servizio della giustizia e l'insopprimibile istinto della difesa propria o del prossimo congiunto, contrasto che la legge non poteva superare esigendo eroismo di eccezione da parte dei testimoni", e non è dunque rimedio sufficiente per allontanare la prospettiva del "grave e inevitabile pregiudizio nella libertà o nell'onore incombente sul prossimo congiunto", potendo anzi accadere che l'avvertimento, lungi dall'escludere lo stato di necessità, al contrario, lo determini o lo rafforzi e ne ponga la condizione più angosciosa.
Senonchè siffatte considerazioni nulla apportano alla soluzione del problema.
Mettono si in luce l'aspetto psicologico del dichiarante e le sue esigenze personali determinate dalla peculiare situazione in cui versa, e quindi la delicatezza del conflitto di interessi che la regolamentazione legislativa ha dovuto affrontare a riguardo, ma sono da ritenere di nessun effetto ai fini ermeneutici, restando al di qua e al di fuori del quadro normativo, che è quello dianzi delineato.
Non è qui il caso di prendere posizioni in ordine alle ben note divergenze ermeneutiche, sia in dottrina che negli indirizzi giurisprudenziali, circa la valenza da attribuire, ai fini dell'applicabilità dell'esimente dell'art. 384 c.p., al requisito della non volontaria causazione della situazione di pericolo, contrapponendosi alla lettura della norma in chiave (soggettiva) di inesigibilità, e quindi alla configurazione della esimente come causa di esclusione della colpevolezza, l'interpretazione della stessa in termini oggettivi, quale ipotesi speciale dello stato di necessità, come tale riconducibile alla categoria delle cause di esclusione dell'antigiuridicità del fatto.
Basta infatti, per negare ogni efficace incidenza critica alle argomentazioni di cui si avvale l'opposta soluzione, appena innanzi riportate, il rilievo che esse pretermettono di considerare che, come già in precedenza chiarito, il problema relativo al conflitto motivazionale tra l'adempimento del dover testimoniare e la tutela contro il rischio di ledere l'onore o la libertà del prossimo congiunto è stato già e in radice risolto dal legislatore nel momento in cui, tutelando il diritto al silenzio, ha riconosciuto al dichiarante la facoltà di astenersi. Sicchè, se l'agente non si avvale di tale facoltà ed accetta di deporre con obbligo di verità, pur indiscutibilmente persistendo, com'è naturale che sia, nell'intimo del suo animo, al momento della deposizione, quel "tormentoso contrasto" di cui si è detto, sicuramente non annullato dall'avvertimento del giudice, e con esso la consapevolezza dell'inevitabilità del nocumento derivante da una testimonianza veritiera, ciò nondimeno non può egli tornare ad invocare "ancora" una volta a sua discolpa la situazione di necessità prevista dall'art. 384 c.p., questa situazione è stata già anticipatamente valutata, tutelata e regolamentata dal legislatore.
Deve aggiungersi che il conflitto motivazionale più volte richiamato può essere addirittura superato, autonomamente, dallo stesso dichiarante. Ciò accade quando questo si costituisca come fonte attiva di denuncia (o querela) a carico del familiare (è il caso del prossimo congiunto "accusatore"). Se depone successivamente il falso per salvare il familiare dal pericolo derivante dalla condanna, nell'ambito del processo scaturito dalla sua denuncia, non può contare sull'applicazione della scriminante in questione, proprio perchè con il comportamento dato dalla proposizione della denuncia ha dimostrato di aver già risolto quel conflitto di coscienza che la facoltà di astensione intende tutelare e che fonda l'esimente (v. sentenza Mocerino cit; Cass. 6^, 03.03.1983, Gentile, rv 158577).
Nè giova appellarsi al dato che tale esimente è estesa ad altri reati, nei quali la necessità non può essere collegata in alcun modo alla violazione di un dovere, stante la evidente peculiarità del reato di falsa testimonianza a ragione del suo intimo intreccio con disposizioni di natura processuale.
2.3. Da ultimo, va preso in considerazione l'ulteriore rilievo, su cui l'opposto indirizzo insiste particolarmente, secondo il quale se il comma 1 non si applicasse al prossimo congiunto che si è avvalso della facoltà di non rispondere la norma sarebbe sostanzialmente privata di contenuto.
L'argomento è assolutamente infondato.
L'384 c.p., comma 1 e 2 regolano situazioni diverse.
Il comma 1, per quanto riguarda la testimonianza, si riferisce chiaramente ai casi in cui il dichiarante non ha facoltà di astenersi, come si desume dalla considerazione che la causa di non punibilità riguarda in primo luogo chi ha commesso il fatto per salvare sè medesimo da "un grave e inevitabile nocumento" nella libertà o nell'onore. In questo caso la norma si riferisce al testimone che sarebbe altrimenti costretto ad autoaccusarsi e non ha nulla a che vedere con il prossimo congiunto dell'imputato al quale invece si riferisce la testimonianza del comma 2.
E' da aggiungere che la tutela accordata dal comma 1 riguarda non solo le dichiarazioni previste dall'art. 63 c.p.p., ma anche tutte le altre dichiarazioni dalle quali potrebbero emergere fatti disonorevoli (un rapporto incestuoso; un rapporto omosessuale) per il testimone (richiesto ad esempio di indicare le ragioni per le quali era presente in un certo posto a una certa ora).
Analoghi potrebbero essere i motivi di una falsa testimonianza per "salvare" il prossimo congiunto. In un processo penale, o anche in un processo civile, le domande potrebbero mettere il testimone di fronte all'alternativa di mentire o di riferire fatti che potrebbero dar luogo all'incriminazione o alla lesione dell'onore del congiunto.
E in questi casi l'art. 384 c.p., comma 1, esclude la punibilità per le false dichiarazioni.
L'ambito di applicazione dell'art. 384 c.p., comma 2, è diverso e riguarda le persone che non avrebbero dovuto essere assunte come testimoni. Esse non sono punibili, quale che sia la dichiarazione falsa e la ragione che l'ha determinata.
11 coimputato che viene sentito come testimone, invece che nelle forme dell'art. 210 c.p.p., non è punibile indipendentemente della ragione per la quale ha dichiarato il falso, anche cioè se ha commesso la falsa testimonianza "per salvare se medesimo o un prossimo congiunto" o addirittura l'ha commessa per danneggiare il prossimo congiunto, come ad esempio potrebbe avvenire se (ipotesi tutt'altro che improbabile) un collaboratore di giustizia facesse dichiarazioni false a danno, anzichè a favore di un coimputato prossimo congiunto.
Per l'art. 384 c.p., comma 2, non sono punibili i prossimi congiunti dell'imputato che avrebbero dovuto essere avvertiti della facoltà di testimoniare, e non lo sono stati.
La situazione è assai diversa da quella dell'art. 384 c.p., comma 1, sia perchè il processo nel quale viene resa la testimonianza, diversamente da quello del comma 1, è necessariamente nei confronti del prossimo congiunto, sia perchè la falsa testimonianza è non punibile tanto se è stata resa per salvare il congiunto quanto se è stata resa per danneggiarlo.
Il testimone non è punibile per il solo fatto che non è stato avvertito della facoltà di non testimoniare, e, a contrario, deve ritenersi che sia punibile nel caso in cui invece, essendo stato avvertito, non si è avvalso della facoltà di astenersi dal testimoniare e ha dichiarato il falso.
Le due diverse sfere di applicazione dell'art. 384 c.p., comma 1 e 2, inducono a ritenere che le due norme sono alternative e non si possono combinare. Perciò quando ci si trova nella situazione regolata dal comma 2, il testimone che non si è astenuto e ha dichiarato il falso non può avvalersi della causa di non punibilità dell'art. 384 c.p., comma 1, sostenendo di essere stato costretto dalla necessità di salvare il prossimo congiunto, anche perchè non c'è stata alcuna costrizione.
3. In conclusione deve ritenersi che "la causa di esclusione della punibilità per il delitto di falsa testimonianza, prevista per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare sè o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore, non opera nell'ipotesi in cui il testimone abbia deposto il falso pur essendo stato avvertito della facoltà di astenersi".
E poichè la ratio decidendi della sentenza impugnata risulta in contrasto con il principio di diritto suindicato, tale decisione deve essere annullata con rinvio alla Corte di Appello di Roma per il relativo giudizio.
P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Roma per il giudizio di appello.